Senza che me ne rendessi conto, fin da piccolo ho usato il coming out come atto politico ed educativo. Asserire la mia identità e la mia esistenza mi sembrava il modo più efficace per affrontare la chiusa campagna umbra, specie se mi veniva data l’occasione di spiegare.
Con mia nonna questo approccio non ha mai funzionato molto bene, perché per poterti spiegare hai bisogno di qualcuno che ti ascolti. O, nella fase successiva della sua vita, che si ricordi.
Nonna Nicoletta, sopravvissuta alla seconda Guerra Mondiale e a una relazione violenta, era una delle le persone più resilienti che io abbia mai conosciuto, nonché una delle più tossiche. Una donna fascista che in questa società patriarcale aveva sviluppato, come meccanismo di difesa, una curiosa miscela di misandria, sessismo, omofobia e disturbo narcisistico.
Era lei la mia eroina, e alle medie le confidai l’interesse per una ragazza, convinto di poterle rivelare tutto. «Passerà» rispose, convincendomi che fosse un’amicizia. Quando l’anno dopo, in preda all’emotività di una litigata familiare, ho fatto coming out come bisessuale, mi disse che «non era importante in quel momento», perché c’erano l’assenteismo scolastico, i pessimi voti e il comportamento tutt’altro che esemplare rispetto a ciò che pretendeva dalla sua nipotina. Quei miei comportamenti erano espressioni di un malessere più radicato, ma nulla era davvero rilevante finchè non se ne sparlava in città.
Sulla cotta aveva ragione. Passò, ma in compenso iniziai a fasciare il seno (non fatelo!). Smisi di abitare con lei e mi trasferii da mia madre. Lei e gli amici iniziarono a rispettare il nome e i pronomi scelti. Finalmente riuscivo a riconoscere l’origine di quel dolore, e mi venivano forniti gli strumenti per stare meglio.
A quattordici anni, la scoperta della mia identità avveniva in parallelo a quella di Nicoletta. Più scavavo in entrambe, più mi sentivo simile a una marionetta che doveva recidere i fili del suo burattinaio.
Ma le relazioni sono più complesse delle metafore e durante un abbraccio datole con cortese riluttanza, lei sentì i bendaggi sul petto. Le spiegai che ero trans e mi sentivo un ragazzo. Chiese «perché?» tantissime volte, senza ascoltare nessuna delle risposte.
Ho rimosso tanti ricordi di lei, tra cui i dettagli di quel giorno. È rimasta vivida solo la convinzione di non doverle più niente, che contraddiceva la spasmodica necessità di essere visto e compreso non per chi lei voleva che fossi, ma per chi ero davvero. Insisteva anche che sarei guarito non appena mi fossero piaciuti «i ragazzetti».
Divenne un coming out infinito. Continuo e frammentato, cancellato e ripetuto più volte, come i suoi ricordi negli ultimi anni di vita.
Con il deteriorarsi della sua mente, anche la mia convinzione nel ripeterle che mi chiamavo Ren è venuta meno poco a poco. Mi sono arreso dopo cinque anni, lasciandole associare, nei brevi sprazzi di lucidità, il mio vecchio nome ai miei tratti somatici quando le dicevano qualcosa.
Egoisticamente vorrei pensare a quest’ultima versione di lei, così fragile e così profondamente diversa dalla donna ferita che mi ha cresciuto, come capace finalmente di comprendere, se la sua mente avesse potuto. Un’utopia, come la speranza di riuscire a perdonarla.
A un anno dalla sua morte ha lasciato fantasmi di rancore e la rassegnazione che non tutti i coming out finiscono bene o male. Alcuni non finiscono proprio.
Oggi, neanche a farlo apposta, riconosco che mi piacciono «i ragazzetti». Ma non credo esattamente come voleva lei.
Pubblicato sul numero 57 della Falla, luglio/agosto/settembre 2020
Immagine in evidenza di Erik M. Ramos
Perseguitaci