Chi non conosce Allen Ginsberg si affretti a farlo: legga le sue opere, almeno le più celebri (Urlo, Kaddish), la biografia curata da Bill Morgan Io celebro me stesso – disponibile al Centro di Documentazione Flavia Madaschi –, ne ascolti la voce tra i file disponibili online.
Con Kerouac, Burroughs, Diane di Prima, Corso (che fu a Bologna per lunghi periodi, talvolta compagno di performance del poeta Alberto Masala; una sera, facevo il cameriere da Vito, gli strizzai allegramente le chiappe: le chiappe di Gregory Corso, non so se mi spiego!), Ginsberg fu tra le voci più significative tra quelle che diedero vita alla beat generation. Non fu solo poeta e scrittore: agitatore, ribelle, oppositore della guerra in Vietnam, esplicito fin dagli anni ‘40 nelle sue relazioni con altri uomini (soprattutto con quel biondino squilibrato di Peter Orlowsky, suo compagno di una vita). Ginsberg andò allo Stonewall, a New York, il 30 giugno 1969, terza notte di rivolta della nascente comunità trans, gay, lesbica. Ballò e parlò a lungo con i giovani che animavano la ribellione e, andandosene, confidò allo scrittore Lucian Truscott IV che ora tutto gli sembrava diverso. E poi annotò: “I gay hanno perduto quel loro sguardo ferito”. Ecco, il 28 Giugno, il Pride, è la celebrazione dell’abbandono dello sguardo ferito, di quella conquista di agio, dignità, orgoglio che nasce dalla ribellione e che non ha bisogno di riconoscimenti, se non da se stessi. Ribellarsi è giusto (ma questo lo disse Mao Zedong).
pubblicato sul numero 36 della Falla – giugno 2018
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