Nel dibattito intorno all’HIV, uno dei temi più caldi del momento riguarda la cosiddetta disclosure, ovvero il fare “coming out” sull’essere HIV+. Dirlo o non dirlo?
Andiamo con ordine, partendo dalla legislazione in Italia. Il nostro codice tutela le persone sieropositive: la legge 135/1990 protegge la privacy dello stato sierologico e la sua divulgazione (in relazione al trattamento dei dati personali questa legge in ambito sanitario è implementata dalla legge 675/1996 e dal d.lgs. n. 282/1999 che la modifica e integra) e prevede che le persone HIV+ non vengano in alcun modo discriminate, con una particolare attenzione all’ambito lavorativo. Sul piano penale, invece, viene posta molta attenzione alla tutela della salute collettiva: diverse sentenze hanno sancito la condanna per lesioni personali in alcuni casi anche aggravate (artt. 582 e 583 del codice penale) di chi, pur consapevole di essere sieropositivo, attraverso rapporti non protetti e senza comunicare il proprio stato sierologico ha trasmesso il virus ad un o una partner.
Quindi la giurisprudenza sembra essere in grado di identificare le situazioni in cui la disclosure è imprescindibile e quelle in cui invece è facoltativa. A questo punto, spostandoci sul piano etico sorge una domanda: in caso di trasmissione del virus, la “responsabilità” è di chi non si dichiara HIV+ prima di ogni rapporto sessuale, anche occasionale, o di chi non usa le precauzioni, indipendentemente dal proprio stato sierologico?
Chiaramente, ognuno di noi è responsabile della propria salute e deve proteggersi dalla trasmissione di qualsiasi tipo di infezione, HIV inclusa, prendendo come abitudine l’utilizzo del profilattico. Di riflesso, inevitabilmente, anche i nostri partner saranno al riparo da eventuali infezioni.
Sia per la propria salute, sia per quella dei partner, è estremamente importante essere consapevoli del proprio stato sierologico facendo con regolarità il test per l’HIV. Il maggior numero di casi di infezione avviene infatti proprio nei contesti in cui si ignora il proprio stato sierologico.
Anche una corretta informazione gioca un ruolo determinante nella diffusione del virus HIV. La scienza ha recentemente dimostrato che, in una persona sieropositiva che fa uso delle terapie antiretrovirali, la carica virale risulta “non rilevabile” e viene bloccata la replicazione del virus. Questo, associato all’uso del preservativo, riduce moltissimo le possibilità di trasmissione dell’infezione. In termini tecnici si parla a questo proposito di TASP (Treatment AS Prevention ovvero “trattamento come prevenzione”).
Un contesto sociale che supporti e renda le persone maggiormente in grado di gestire la propria sieropositività e un contesto giuridico meno criminalizzante, sarebbero poi molto giovevoli non solo per chi vive con HIV ma anche per evitare un approccio che incute timore nei confronti del test e, ancora una volta, aumenta il rischio di infezioni.
Il tema della disclosure rimane molto sfaccettato e possono essere determinanti due dinamiche che vale la pena sottolineare. Sul piano delle relazioni sociali, l’individuo può essere portato a sentirsi in dovere di dichiarare la propria sieropositività “per onestà”, sul punto di iniziare un rapporto sessuale anche occasionale, anche se questo sarà protetto. In tal senso il peso della rivelazione si allarga a un numero indefinito di persone, con le quali la persona spesso non intende creare alcun legame oltre il sesso occasionale, anche se protetto.
All’interno della popolazione HIV+ d’altro canto, a fronte dello stigma imperante, si è sviluppato in alcuni contesti una sorta di bisogno di palesare il proprio stato sierologico pubblicamente. Questo fenomeno è tipico di alcune comunità di persone che, sottoposte a una forte discriminazione sociale per un tempo abbastanza lungo, fanno dell’oggetto del loro stigma un motivo di rivendicazione (per rafforzare il proprio io, socialmente indebolito dallo stigma).
Per certi versi alle persone HIV+ è ancora associata l’immagine dell’infermità. Un gruppo di persone sieropositive così stigmatizzate può sentire quindi la necessità di emanciparsi dallo stigma uscendo dall’immagine del “malato”, per dimostrare “mettendoci la faccia” di essere una persona al pari delle altre. In quest’ottica la disclosure può diventare un atto politico.
Quindi, disclosure per tutti? La presa di coscienza di sé è certamente importante e la disclosure può essere utile per combattere lo stigma, ma fino a che punto una singola persona sieropositiva, magari in un contesto fortemente stigmatizzante, si deve spingere con la visibilità? La rivelazione del proprio stato sierologico è una scelta personale, da fare nel contesto e nel momento adeguati, in maniera ponderata e con le persone con cui si ritiene importante condividerla, senza forzature. L’HIV è sicuramente un’esperienza che cambia la vita delle persone che ne sono affette: influisce sul rapporto con il mondo e con il proprio corpo, ma la persona sieropositiva rimane un essere umano tale e quale agli altri, con gli stessi pregi e difetti. Essere sieropositivi non definisce una persona nella sua totalità, semmai è solo uno dei tanti aspetti di una persona. Mai l’unico.
pubblicato sul numero 8 della Falla – ottobre 2015
Perseguitaci