di Irene Pasini e Valentina Pinza

Digitando “bisessualità” nel campo di ricerca troviamo in ordine – chiaramente solo dopo la consueta definizione di Santa Wikipedia – una guida su come uscire con un bisessuale (assieme alla relativa anteprima della fatidica domanda: sarà attratto da chiunque si muova?), un blog al femminile sull’eterno quesito “Esiste davvero la bisessualità?“, il tutto seguito da siti a matrice “psicologica”.

Nessuna notizia politica o pagina di una qualsivoglia associazione, al pari di quanto invece avviene nel caso della parola “gay”, ma nemmeno un link a una community o a un telefilm a tema, al contrario di quanto accade col termine “lesbica”. Perché?

Affinché si possa individuare il motivo per cui qualcosa non abbia la dovuta visibilità, occorrerebbe forse soffermarsi sul perché altro invece ce l’abbia.

Tuttavia, per fare questo, bisognerebbe ripartire da Stonewall, dai moti del ’69 e dai primi Pride, riflessione già abbastanza operata e che soprattutto non posso permettermi di tentare in meno di duemila battute.

Partiamo però almeno da un presupposto: l’associazionismo, con tutto ciò che ne consegue, ha sicuramente portato, nel corso degli ultimi quarant’anni, a garantire una visibilità non per forza negativa alla popolazione gay e lesbica. Ma che dire di tutto il resto? Non tanto di trans, queer, agender e compagnia bella, che già hanno complicato la nostra vita di attivisti e le nostre sigle di comunità abbastanza da non permettere loro di fare lo stesso con questo mio articolo.

Ma i bisessuali? Perché non vengono mai presi davvero in considerazione? Ebbene, di sicuro le associazioni LGBT+ hanno, com’è giusto che sia, delle urgenze e sì, si potrebbe discutere pure di bifobia interna alla comunità. Ciononostante, si sa, è più facile negarne l’esistenza e parlare di “priorità”. Quindi, dicevamo: la nostra comunità desidera innanzitutto la famiglia Mulino Bianco, lo steccato bianco e il labrador. Come conciliare quest’immagine rassicurante e felicemente binaria con chi si rifiuta di semplificare la vita agli altri, dicendo di poter essere attratto sia da uomini che da donne?

E, in tutto questo, in che modo possono i bisessuali chiederci di ricordare che il genere è una costruzione sociale?  A noi, talmente succubi della fittizia politica anti-gender da essere terrorizzati dall’utilizzare proprio quello che in teoria dovrebbe essere un nostro slogan?

“Essere bisessuale raddoppia immediatamente le tue possibilità al sabato sera” recita una celebre frase di Woody Allen. Ecco, si tengano questa magra consolazione. Abbiamo ddl disgustosi da difendere e una società da rassicurare con immagini di matrimoni felicemente eteronormativi.

Che poi, diciamocelo, la B c’è, le associazioni che una volta si dicevano gay e lesbiche ora possono vantare la sigla LGBT+; i bisessuali non vorranno mica unirsi alle noiose proteste della comunità T, la quale ci ricorda che mettere l’iniziale di una parola non dovrebbe essere l’inizio di un percorso bensì la fine?

Irene Pasini

 

Nel 1999 ILGA stabilì che il 23 settembre, giornata della scomparsa di Freud, dovesse diventare la data mondiale dell’orgoglio bisessuale (Bisexual Pride and Bi Visibility Day), mentre la bi pride flag di Michael Page faceva la sua comparsa l’anno prima, nel 1998. Per chi non l’avesse mai vista si tratta di tre fasce orizzontali: magenta per l’omosessualità, blu per l’eterosessualità e viola, nel mezzo tra le due, per la bisessualità.

Dopo oltre quindici anni dall’istituzionalizzazione bisessuale, la visibilità, almeno in Italia, non sembra essere cresciuta in maniera significativa, complice la doppia discriminazione da parte della comunità omosessuale e dalla maggioranza eterosessuale, e un Paese che non ha ancora regolarizzato le unioni tra persone dello stesso sesso, sancendo per legge l’uguaglianza nei diritti tra coppie omosessuali e coppie eterosessuali.

Se all’estero la bi-way comincia ad avere i propri campioni e le proprie campionesse in prima linea per l’autodeterminazione, in Italia stiamo ancora aspettando qualcuno che vada a far sentire meno solo il povero Tiziano Ferro, figuriamoci se parliamo di bisessualità. Gli eufemismi si sprecano e si confondono nelle dichiarazioni di personaggi pubblici con una vita privata sconosciuta, volti a intorbidire le acque quel tanto che basta a lasciare il sospetto che si tratti almeno di bisessualità, se non proprio di omosessualità, ma comunque privando la bisessualità di dignità, rispetto e legittimità.

Dove siete, bisessuali? Dove siete e come vivete, nel vostro intimo, la disparità pubblica dei vostri rapporti? Com’è, cosa si prova ad avere relazioni diverse in una società che fa del binarismo, anche nell’orientamento, la propria qualità più spiccata? Dove siete quando la comunità LGBT+ scende in piazza, dov’è la B? Chi deve farsene carico? Chi, se non le persone bisessuali, devono prendere parola e affermare la propria esistenza?

La comunità LGBT+ ha ancora un grosso problema col proprio acronimo di base – nonostante disquisisca, e giustamente, sull’ampliamento della sigla -, nessuna lettera esclusa.

Valentina Pinza

pubblicato sul numero 8 della Falla – ottobre 2015