Assodato, per quanto mi riguarda, che può risultare letale, allo sguardo critico, partecipare al dibattito che segue un spettacolo di danza contemporanea, si conferma invece un arricchimento indispensabile partecipare al dibattito post visione a un festival di cinema.
È grazie al racconto di Susan Stryker, regista e teorica attiva nei gender studies, che ho appreso la genesi di We’ve been around, mini serie in sei episodi che potete vedere on line comodamente dal divano su questo sito (ma senza dibattito). La serie, diretta da Rhys Ernst, co-produttore della più nota Transparent, era stata inizialmente prodotta come contenuto extra per il Dvd di The danish girl. Ignorando questo particolare ci si potrebbe chiedere cosa ci stanno a fare quelle sei storie riunite in un’opera sola, legate da tratti in comune ma non da un filo unico che si tenta di afferrare lungo tutta la visione. Sono storie che raccontano al pubblico mainstream (The danish girl è stato presentato a Venezia nel 2015, raccogliendo un Oscar e numerose nomination) l’ordinarietà dell’esistenza delle persone trans nel corso della storia. Naturalmente l’ordinarietà non sta nella loro vita quotidiana, ostacolata dalla perenne dicotomia tra il vivere il proprio genere con naturalezza e il doverlo rivendicare quando il mondo scopre che esso non corrisponde ai tuoi tratti genetici, ma piuttosto nel semplice fatto che queste persone sono sempre esistite. Un’opinione diffusa è infatti che sia il nostro mondo moderno, con la sua peculiare messa in discussione di tutto, e la destrutturazione delle componenti sociali e no, ad aver “prodotto” il transgenderismo. Niente di più falso, naturalmente, come ci testimoniano le storie di We’ve been around: da Albert Cashier, soldato nella guerra civile Americana a fine Ottocento, a Lucy Hicks Anderson, vissuta tra gli anni ’20 e i ’50. We’ve been around: ci siamo sempre stati/e.
In questa carrellata di ritratti, dato che, lo ricordo, sono stati concepiti per allargare gli orizzonti del grande pubblico, trovano spazio anche le panoramiche di due momenti storici: la nascita di Star (Street Transvestite Action Revolutionaries), il movimento creato da Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, e il Camp Trans, un barlume di sorellanza per cui vale la pena leggere qualche altra riga di questa recensione.
Negli Stati Uniti si è tenuto dal 1976 al 2015 il Michfest, conosciuto anche come il Woodstock delle donne: un festival di musica messo in piedi esclusivamente da donne, aperto ad un pubblico di sole donne, diventato fin dalla nascita uno spazio sicuro in cui le donne potevano empatizzare e condividere esperienze. Negli anni ’90 vennero organizzate proteste all’esterno del Michfest a causa della linea politica del festival, che escludeva le donne trans. Proteste che sfociarono, in un barlume di unitarietà, nel Camp Trans, un momento in cui donne biologiche e donne trans si trovarono pacificamente insieme.
Purtroppo il barlume si spense in fretta, e il Michfest continuò ad essere un festival per “donne-nate-donne” (WBW), così come continuarono le proteste a questa politica, da parte di donne trans ma non solo, che lo trascinarono alla chiusura nel 2015.
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