Per le Nazioni Unite il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Per i movimenti femministi, queer e transfemministi, il 25 novembre è una giornata di lotta contro la violenza di genere con una lunga tradizione, che negli ultimi anni ci ha vistə convergere a Roma per la manifestazione nazionale organizzata da Non Una Di Meno. 

Inizio l’articolo con questa contrapposizione perché mi sembra la più utile a entrare velocemente nel merito delle principali questioni che circondano questa data. La prima, e sicuramente la più facile, è la distinzione tra giornata rituale istituzionalizzata e mobilitazione politica. 

Quando dico che il 25 novembre ci riguarda tuttə, mi riferisco ovviamente alla giornata di lotta. L’istituzionalizzazione di questa ricorrenza ha un valore strategico (e a tratti estenuante), perché fa sì che il 25 novembre sia quel momento dell’anno in cui la violenza di genere entra nel dibattito mainstream senza bisogno di un femminicidio. Lavorando come ufficio stampa per i Centri Antiviolenza (CAV) passo buona parte dell’anno a chiamare giornalistə più o meno recettivə per proporre approfondimenti sul tema, e la settimana prima del 25 novembre a rispondere a uno stormo di chiamate che si interrompe puntualmente il 26. La cosa è utile, anche se frustrante, e permette ai CAV di parlare della dimensione sistemica del fenomeno e del loro lavoro nei territori. E tutto sommato penso che vada bene così. 

È in riferimento alla mobilitazione politica e al modo in cui ci coinvolge, penso, che emerge realmente la seconda questione: come nominiamo questa violenza? 

Tra violenza contro le donne e violenza di genere

Se sia meglio parlare di violenza contro le donne, di violenza di genere o entrambe le cose, è un lungo dibattito che attraversa la storia dei nostri movimenti, e di certo non sarò io a dare una risposta definitiva. Voglio provare però a mettere insieme un po’ di esperienze e sensazioni, raccolte tra lavoro con i CAV, politica transfemminista queer e rimuginazioni (post)identitarie. 

Parto da una considerazione. A prescindere da come la chiamiamo, questa violenza ci colpisce lo stesso. Se le lesbiche non sono sono donne allora quella che vivo io non è violenza contro le donne. Però devo dire che della mia soggettivazione lesbica femme o del fatto che avessi letto Wittig al mondo è importato molto poco. Non è cambiato il catcalling, non è cambiato il rischio di stupro e violenza che mi assumo ogni volta che esco per strada, non sono cambiate le discriminazioni con cui mi scontro quotidianamente (se non per il fatto che se ne sono aggiunte di nuove). Sono cambiate cose più profonde, prima tra tutte la mia esperienza delle relazioni, e non ho più paura che il mio partner si riveli un uomo violento (che non vuol dire che non possa esserci violenza nelle relazioni queer, qui mi limiterò a dire che nonostante la matrice comune mi sembra una cosa diversa.). 

Questo è ciò che mi attraversa quando penso alla distinzione tra violenza sulle donne e violenza di genere e no, non credo che sia un’esperienza comune a tuttə le miə sorellə (e antipatie) lellofrocietransbitutto. Per persone con altre identità e corpi l’esperienza materiale della violenza di genere potrebbe essere diametralmente opposta, caratterizzata da un cambiamento profondo della violenza nello spazio pubblico e da modifiche più sottili all’interno delle relazioni. E finora ho parlato solo di violenza subita, ma cosa dire della violenza agita? Non siamo immuni dalla pervasività della violenza con cui siamo cresciute. 

Proprio per questo è importante superare le logiche identitarie, soprattutto nel parlare di violenza di genere. Un po’ perché a volte finiscono per farci perdere di vista la materialità delle nostre esperienze, che spesso hanno molto più a che fare col modo in cui siamo percepite da una società ostile che con la nostra soggettivazione al suo interno. Un po’ per evitare il rischio di trovarci frammentate in centinaia di piccoli gruppi incapaci di costruire alleanze o di cogliere la matrice comune della violenza. E un po’ per evitare il rischio opposto, che è quello di costruire un soggetto identitario “ombrello” che è ottimo per individuare e contrastare i problemi strutturali della società ma finisce per incancrenirsi quando cerca soluzioni al suo interno (basti pensare al concetto di safer: possiamo davvero dare per scontato che ciò che ci fa sentire più sicure sia la stessa cosa per tuttə?) 

Interrogare e lasciarsi interrogare

La questione di come chiamare la violenza potrebbe anche essere secondaria, e come spesso accade quando si discute di terminologia è più che altro una scusa per parlare delle pratiche, di riconoscimento, del modo in cui ci coinvolge il 25 novembre in quanto soggettività LGBTQIA+. 

La domanda esiste principalmente perché i CAV, e con loro molte femministe, sono restii ad abbandonare la specificità della “violenza maschile contro le donne”. I movimenti LGBTQIA+ e transfemministi, in risposta, fanno fatica a riconoscersi in una dicitura intrinsecamente binaria, che a seconda dei nostri corpi e identità finisce per porci da un lato o dall’altro della violenza o per non considerarci del tutto, e in cui ad accomunarci resta solo il fatto che rappresentiamo un imprevisto nel binarismo eterossessuale sotteso a questo modo di dire la violenza.

Credo che le risposte migliori le abbiano date, finora, quelle realtà che si sono lasciate interrogare da questa domanda, o che – come nel caso di Non Una Di Meno – si sono fatte attraversare da questo conflitto. 

Spesso Non Una Di Meno ha scelto di utilizzare entrambi i termini, o addirittura di parlare di violenza contro le donne, di genere e dei generi. In questo senso la violenza contro le donne viene letta come un sottoprodotto specifico della violenza di genere, e il fatto di continuare a nominarla ha un valore doppiamente strategico. Da una parte si tratta di non abbandonare un termine che – grazie a decenni di lotte femministe – viene finalmente riconosciuto nel discorso pubblico. Dall’altra è una questione di riconoscimento per i Centri Antiviolenza stessi, la cui esistenza e pratiche si fondano sul riconoscimento di questa violenza specifica. 

Il Laboratorio Smaschieramenti di cui faccio parte esiste proprio perché si è lasciato interrogare da una richiesta che oggi forse ci sembrerebbe facile accantonare come irricevibile. Nasce infatti in seguito alla manifestazione contro la violenza maschile sulle donne organizzata il 25 novembre 2007, in cui le organizzatrici avevano voluto un corteo di sole donne cis e trans. Antagonismogay rispose a questa scelta separatista aprendo uno spazio di confronto e autoinchiesta sul desiderio (del) maschile che nel 2008 divenne il collettivo in cui sono entrata più di 10 anni dopo. 

Anche i CAV si sono spesso lasciati interrogare dai movimenti queer e transfemministi, e se Non Una Di Meno è l’esempio principale di questo dialogo, molte sono anche le alleanze costruite sul piano locale, che hanno dato alla luce realtà come la Linea lesbica antiviolenza.

Quello contro cui lottiamo, a prescindere da come lo nominiamo, è il sistema di violenza che origina nel binarismo di genere, nell’eterosessualità obbligatoria e nel patriarcato, che sono cose così interconnesse da rendere difficile distinguere quale venga prima e dove sia il confine tra l’una e l’altra cosa.  Una violenza che al momento è anche governativa e istituzionale, ed è difficile preoccuparsi di come nominarla quando Meloni attacca indiscriminatamente il diritto all’aborto e quello all’autodeterminazione delle persone trans, la fondazione Cecchettin e le associazioni LGBTQIA+ che fanno formazione nelle scuole. Gli uomini che all’indomani dell’elezione di Trump dichiaravano “Your body my choice” parlavano di tutti i nostri corpi, tutto quello che non è un maschio bianco cis eterosessuale abile e benestante. Ecco, credo che sia all’individuazione dei nemici che dobbiamo relegare la precisione nei termini. 

Noialtre abbiamo bisogno più che mai di costruire alleanze, lasciarci interrogare vicendevolmente dalle questioni che le nostre diverse esperienze ed identità possono portare, e accettare che finché sappiamo contro cosa stiamo lottando non abbiamo bisogno di trovare un termine unico per individuarlo. 

Lasciamo che si moltiplichino i nomi per questa violenza, e con loro i nostri corpi in piazza, le alleanze che riusciamo a stringere, le reti che intessiamo per cospirare insieme contro il patriarcato. Perché il 25 novembre ci riguarda tuttə.

Immagine in evidenza: facebook.com/nonunadimeno/