OGGI ALLE 15.30 A BOLOGNA MANIFESTAZIONE DELLE OPERAIE YOOX IN SCIOPERO

«In piazza porteremo i nostri figli, per mostrare all’azienda a chi tolgono il pane per davvero».

Oggi, sabato 12 dicembre, a Bologna ci sarà una manifestazione, in piazza Nettuno alle 15.30, dove un gruppo di operaie in sciopero da più di due settimane mostrerà alla città, sbrilluccicante nonostante il natale pandemico, l’ingiustizia che si nasconde spesso dietro il fantastico mondo degli acquisti online.

Quelle citate sono le parole di Liuba Furtuna, operaia della logistica all’interporto di Bologna, per una srl, il Lis group, che gestisce i magazzini e le spedizioni in appalto per il gruppo Geodis, società internazionale specializzata in movimentazione merci. Geodis a sua volta lavora per Yoox, il colosso della vendita online di abiti e beni di lusso. Le classiche forme di outsourcing a scatole cinesi del capitalismo avanzato, dove di appalto in appalto chi lavora perde sempre più diritti, in una sorta di hunger games tra sommersi e salvati. Yoox ha aumentato i suoi profitti durante la pandemia, ed è in buona compagnia insieme a tante multinazionali, come evidenza un report Oxfam citato anche da Avvenire.

Liuba e una trentina di sue colleghe il 25 novembre, data non casuale, hanno iniziato uno sciopero a oltranza. Nel maggio scorso, con la motivazione della pandemia e della necessità di lavorare in sicurezza, sono partiti i nuovi turni per la logistica: il primo inizia alle 5.30, il secondo finisce alle 22.30, in sostituzione dell’unico turno centrale dalle 8.30 alle 17 che è sempre stato in vigore fino ad allora. Le operaie, all’80% migranti, quasi tutte madri di bambini piccoli, alcune single, da allora hanno iniziato ad avere enormi difficoltà nel gestire la vita dei loro figli. Riferisce Liuba che dall’entrata in vigore del nuovo turno si sono licenziate 40 donne

Questi nuovi turni sono partiti in anticipo rispetto a quanto previsto, ma sono in realtà il frutto di un contratto integrativo aziendale siglato nel maggio 2019 dai sindacati confederali che lo salutarono come una vittoria, e appoggiato, stando al comunicato, dal 71% di lavoratrici e lavoratori che votarono. 

Liuba però sostiene: «Noi non abbiamo visto nessun foglio, a noi lavorat* non hanno detto niente». Visto il sistema di scatole cinesi, è difficile ricostruire chi siano arrivati a consultare per davvero i sindacati confederali e chi no.

Forse l’arcano si spiega col fatto che nello stesso appalto sono impiegate due diverse aziende: la Lis srl e la cooperativa Mmp, e l’accordo dei sindacati (che pure prevedeva i due turni, parzialmente compensati da premi in denaro e buoni pasto) è stato firmato solo con la cooperativa.

Liuba dichiara che la Lis, la sua azienda, impiega al momento circa 100 lavoratori, di cui 70 sono donne, 50 delle quali operaie con maggiore anzianità. Di queste 30 sono impegnate nella lotta in corso.

La Mmp invece impiega oltre 700 persone su questo appalto, e stando a quanto ci racconta Liuba i licenziamenti della srl sono stati compensati con nuove assunzioni presso la cooperativa.

Fatto sta che 40 donne si sono licenziate dalla srl Lis Group perché i nuovi turni si sono rivelati da subito insostenibili per i loro ritmi di vita. «Siamo più scomode perché siamo diventate madri, non siamo più ragazzine che possono fare anche 16 ore di fila». Liuba ha due figli, è separata, e lavora per Lis in questo appalto da 12 anni. Liuba è arrabbiata, amareggiata, ma anche fiduciosa:«Non è la prima lotta che facciamo. In passato il nostro stipendio era di 800 euro al mese, ora stiamo ai – pur sempre miserabili ma migliorativi – 1200. Non avevamo la malattia pagata, ora la abbiamo. Sappiamo di essere fastidiose per l’azienda».

A sostenerle ci sono il nodo bolognese della rete transfemminista Non una di meno, il Coordinamento migranti, il Crash e, come unico sindacato, i SI Cobas.

Alla fine della chiacchierata che si è resa disponibile a fare con me, le ho chiesto come volesse essere citata: con il solo nome di battesimo, con uno pseudonimo, col cognome.

«Scrivi pure anche il cognome, che tanto se devo rimanere senza lavoro meglio in carcere, che almeno mi danno da mangiare».

Liuba non finirà in carcere per aver concesso questa intervista, le leggi italiane fortunatamente sono (ancora?) più democratiche di così, ma questa frase, nella sua lapidarietà, restituisce il senso del non aver più niente da perdere, schiacciate dalle necessità opposte di guadagnare abbastanza per sopravvivere e l’accudimento dei propri figli.