«Vous chaussez du combien ?» «Quanto porti di scarpe?». L’uomo allo schermo cavalca la sessantina, calvo, magro — ricorda Foucault. L’ho contattato in risposta all’annuncio di una stanza a buon prezzo nel Marais per soli ragazzi gay, e ha insistito per una videochiamata ante litteram. Controcampo: io — 19 anni, un metro e novanta di impaccio, abito un corpo adulto che non ho ancora imparato a guidare, la testa troppo rivolta a una timida adolescenza per cogliere malizie e doppi sensi, figurarsi poi in una lingua che mastico appena. Ho da poco attraversato il rito burrascoso del coming out, e il mio slancio di autoaffermazione si sta proiettando lontano, oltralpe. Sogno Parigi.
Il mio piano di fuga di quella lontana estate 2009 è un buco nell’acqua. Ma la testa è dura, e a Parigi atterro due anni più tardi — 27 marzo 2011, volo di sola andata — meno ingenuo e in compagnia dellз miз ragazzз di allora. L’atterraggio è però brusco e la relazione non regge, si sgretola nel giro di pochi mesi. Iniziano così i miei anni universitari, una lunga notte di desideri disattesi e appetiti ululanti, in quella cartografia di pulsioni che si muovono sotterranee nei cunicoli del metrò, rispettandone orari e corrispondenze. Il Marais, che visto da lontano mi sembrava un paradiso terrestre, si rivela presto artificiale, monotono e borghese. Con gli amici ci si va solo per farsi offrire da bere da abbienti ultracinquantenni in cambio di promesse sessuali che puntualmente disattendiamo, mentre la sete ci spinge a nord-est: Belleville, Ménilmontant, le Buttes-Chaumont.
Da quegli anni riaffiorano: le ciliegie nel letto di N. a Hoche, l’indomani della mia prima fête de la musique; la furia e le agghiaccianti magliette rosa-azzurre della Manif pour tous al Trocadéro; la nube di fumo durante le cene tra amici a casa di R., più invitatз che metri quadri, tre tonsilliti in due mesi; la folla arcobaleno in Place de la République quando il progetto di legge strenuamente difeso dall’allora ministra della giustizia Taubira viene approvato in via definitiva; le gambe che tremano per l’ubriachezza euforica mentre salgo la rue Jean-Pierre Timbaud per mano a E. e R., la mia prima relazione dispari; le sirene, l’angoscia e le linee telefoniche intasate di quel maledettissimo giovedì sera di novembre; una foto in bianco e nero: la mia mano sul petto di F., omaggio a Hervé Guilbert, nell’intimità clandestina della mia camera — lui fidanzato con una ragazza di cui non saprò mai il nome e in procinto di sposarsi; l’urlo potente, arrabbiato e festoso delle vie di Saint Denis in occasione del primo pride di banlieue. Le notifiche martellanti e i “slt”, “ça va”, “la forme?” covati poi fino all’amplesso o lasciati cadere come condensa tra manie e insicurezze sul pavimento in cotto del mio appartamento a pochi passi dal Sacré-Cœur.
A chi mi chiede cosa abbia significato per me vivere i miei vent’anni a Parigi, rispondo: la lezione più grande. Che i “per sempre” stanno bene solo nelle fiabe, che luoghi e persone non ci appartengono mai del tutto, e che a nostra volta non apparteniamo a nessuno e a nessun luogo. E che in ogni caso, il desiderio di appartenenza è sopravvalutato, e c’è una bellezza nel fluttuare, nel lasciarsi sorprendere quando la propria solitudine si scontra con quella di un altro essere umano o di una città-enigma, producendo esplosioni talvolta spaventose, talvolta strabilianti.
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