CRONACHE DI UNA – FACILE – VITA LESBICA AUSTRALIANA

Sono partita per l’Australia per un semplice motivo: me l’ha chiesto la mia ragazza. Non fosse stato per lei, forse sarei andata altrove – non così lontano -, ma non ne sono nemmeno sicura. La prima cosa che ho fatto dopo averle detto di sì è stato controllare su Google la situazione LGBT+ del paese: al 5° posto nel mondo per diritti civili. Ok, può andare. Insieme ad altri cinque, tra amiche e amici (di cui due lesbiche e due gay, sarà un caso?), siamo arrivate a Melbourne immediatamente dopo la voluntary survey postale, cioè una specie di referendum a base volontaria sui matrimoni LGBT+: ovunque c’erano campagne pubblicitarie a favore, e i locali esponevano scritte o bandiere rainbow per schierarsi. La consultazione era appena avvenuta, con il 79,5% dei voti a favore, ed è inutile dire come, dal primo secondo, mi sono sentita al sicuro, seppur dall’altra parte del mondo, in un posto totalmente nuovo. In ogni metropoli c’è un quartiere o almeno una via LGBT+, ma non ho percepito alcuna ghettizzazione perché i locali froci, più o meno espliciti, si distribuiscono senza troppa logica.

Nelle campagne arretrate della Tasmania l’atmosfera è molto diversa, ma mi aspettavo di trovare ancora più chiusura, omofobia e sessismo. Un collega poco più che maggiorenne e molto limitato su tutto faceva battute infelici sul lesbismo. Un ragazzo sconosciuto ha approcciato i miei amici al grido di «Ma queste tipe ve le scopate tutte, eh??». Cosa pretendere, da un’isoletta con una densità di 7 abitanti per km². Allo stesso tempo, il mio capo coltivatore sessantenne ha sempre mantenuto un’estrema professionalità e creato dei team in cui le coppie potevano lavorare insieme: anche noi eravamo riconosciute come coppia. Ho lavorato come cameriera in uno dei ristoranti più frequentati di Sydney e dopo pochi giorni sono andata a cena lì con la mia ragazza presentandola a tutte e tutti per quello che era, poi nell’ultimo mese anche lei ha lavorato con noi. Mai nessun commento negativo, giudizio o discriminazione, anzi abbiamo quasi percepito un trattamento privilegiato perché, anche senza chiedere, ottenevamo sempre i turni contemporanei e, quando i manager hanno scoperto che ero andata a lavoro il giorno del mio compleanno, ci hanno dato libero il giorno dopo per poter stare insieme. Robe dell’altro emisfero. Da parte di alcune persone c’era curiosità, ma sempre accompagnata da rispetto e discrezione.

La libertà d’espressione di genere che ho trovato nel mainland riguarda anche la comunità etero. Ho notato un’enorme gamma di stili di abbigliamento, soprattutto per le donne: ho visto signore presentarsi al ristorante in infradito e vestiti sciupati, così come in scintillanti abiti da sera con spacco e gioielli. Non ci sono paletti, puoi essere chi vuoi e non verrai guardata male per questo. Nessuno ti fissa se baci un’altra ragazza per strada e quando facevo coming-out (continuamente), non vedevo la gente raggelarsi, essere preda di imbarazzo e farfugliare ridicole scuse del tipo «L’importante è che sia felice tu». Anche perché “felice” è alquanto riduttivo!

pubblicato sul numero 45 della Falla, maggio 2019

immagine realizzata da Carmen Ebanista