UNA RIFLESSIONE PER LA GIORNATA MONDIALE SULLA LIBERTÀ DI STAMPA
A partire dal 1993, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha identificato il 3 maggio come ricorrenza della Giornata mondiale della libertà di stampa. Lo scopo dichiarato è quello di ricordare ai governi di far rispettare il diritto di libertà di parola, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani fin dal 1948.
Quasi 30 anni dopo l’istituzione c’è chi dà tranquillamente per scontato il diritto d’espressione, soprattutto se persona di cittadinanza europea, o relega con facilità il tema a un altrove lontano. Un rapido sguardo ai report annuali di istituzioni come la Rsf (Reporter without borders) o come la Ifj (International Federation of Journalists) basterebbe a rendere molto più sfumata questa percezione. Già l’Unione Europea, considerata globalmente il luogo di maggior tutela dei diritti d’espressione, presenta situazioni tra loro molto dissimili: si spazia ad esempio da una Norvegia che segna il primo posto mondiale, a un’Italia adagiata al 41esimo. Da non interpretare solo come un miglioramento nazionale la risalita rispetto al 46° posto del 2018, considerando che nel frattempo paesi come Islanda, l’Austria e la Romania hanno visto un’oscillazione pericolosa, scivolando indietro di molte posizioni. A onor di cronaca i parametri richiesti dal Rsf spaziano molto, e possono far capire a un primo sguardo quali possano essere alcuni dei problemi nostrani: pluralismo; indipendenza dei media; ambiente e autocensura; sistema legislativo; trasparenza; infrastrutture; abusi. Certamente il quadro europeo gode di un’istituzione sovranazionale che fin nella sua Carta dei diritti fondamentali ha voluto esprimere, all’articolo 11, l’importanza della libertà d’espressione. Da anni tuttavia, tra interrogazioni parlamentari e inchieste giornalistiche, pure l’Europa è stata sotto l’occhio dei riflettori rispetto alla presunta tolleranza di determinate violazioni: sotto questo profilo appare emblematico il caso turco. Si tratta certo di una situazione particolare: la Turchia è un paese in percorso avviato e non effettivamente membro dell’Ue, ma l’escalation della repressione da parte di Erdoğan ha fatto saltare ben più di una sedia.
Il 15 luglio 2016 un nutrito gruppo militare ha cercato di destituire il governo della Turchia. Nel giro di 14 ore il golpe viene dichiarato fallito e il presidente turco lancia una controffensiva: iniziano retate per l’arresto di diversi giornalisti, scrittori e intellettuali considerati legati al colpo di stato. Il caso più emblematico è quello di Ahmet Altan.
Ex direttore di Taraf e scrittore per altre testate, Altan viene arrestato e accusato, sotto il profilo di una sorta di associazione esterna apparentemente indimostrabile, di avere favorito il Golpe. I capi d’accusa sono ridicoli e fragili, tanto da essere stati smontati dallo stesso Altan in un pamphlet tradotto in più lingue dal titolo Ritratto dell’atto d’accusa come pornografia giudiziaria. L’esito processuale è comunque quello di una condanna a oltre 10 anni di carcere (a fronte di un pubblico ministero che richiedeva l’ergastolo). Le principali prove, appunto, si formalizzavano in delitti d’opinione espressi in articoli di anni prima. Con Altan, i giornalisti incarcerati in Turchia sono svariate centinaia. Negli ultimi cinque anni è stata proprio L’Ue a venire spesso criticata dalla stampa per le poche pressioni esercitate su Ankara in merito a queste ondate di repressione, arrivando a rappresentare una situazione di stallo legata agli accordi sui migranti presi con il governo turco. Di fatto le varie segnalazioni sui diritti umani violati in Turchia hanno dato l’impressione di rimanere inascoltate. Che forza ha e può dimostrare quell’istituzione, rispetto alla libertà di stampa, se tace o mitiga le proprie posizioni su casi tanto gravi?
Mercoledì 14 aprile, tuttavia, forse si è aperto lo spiraglio per un dialogo diverso tra Ue e Turchia: la 16a Corte di Cassazione, dando seguito a una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha ribaltato la condanna di Ahmet Altan e della sua collega giornalista Nazlı Ilıcak, ordinandone la scarcerazione. Oggi ancor di più, Altan è destinato a diventare simbolo di una fiera opposizione al regime, una resistenza rispetto alla libertà di parola. Come simboli vanno considerati quei giornalisti assassinati ogni anno perché dissidenti (42 uccisi solo nel 2020) e come alta va tenuta l’attenzione rispetto a quei politici che incensano l’avanzato livello sociale di nazioni il cui governo è accusato direttamente dell’assassinio di un giornalista. Ma questa è un’altra storia.
Immagine nel testo da: www.bbc.com
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