Le discriminazioni possono essere tante quante le identità e ogni persona è il risultato della sovrapposizione, dell’intreccio inscindibile, di molteplici identità differenti. Nella maggior parte dei casi a prevalere sono le identità più problematiche, quelle che dall’esterno vengono notate immediatamente e additate come diverse, non conformi agli standard dettati da una cultura pervasivamente normocentrica. L’identità che fin da bambino mi ha fatto sentire diverso è quella a cui ho potuto dare un nome solo più tardi, quando ero ormai adulto: la mia identità neurodivergente. Essere autistico e non saperlo fino a una certa età ha significato vivere con la costante sensazione di trovarmi fuori luogo, di non comprendere mai appieno le regole di una società che a volte sembra funzionare in modi incomprensibili. Essere autistico ma crescere come non autistico, senza capire il perché di tante differenze rispetto allǝ compagnǝ di scuola, senza riuscire a evitare di deludere costantemente le aspettative della mia famiglia, dei conoscenti e di quelle poche amicizie che avevo, ha significato credermi difettoso, costantemente sbagliato.

È curiosa, questa cosa delle identità, perché fino a quando non dai un nome a determinate tue caratteristiche, per quanto risultino problematiche nella loro interazione con la società normocentrica, rimane tutto nebuloso, vago. Anche il dolore è vago, fino a che non capisci da dove arriva.

Quando invece nomini una cosa, allora comincia a esistere: assume dei connotati chiari e diventa meno spaventosa, più gestibile. Allo stesso tempo, quell’etichetta è il risultato di un processo sistematico di esclusione che la maggioranza opera in modo costante verso chiunque essa percepisca come differente. L’etichetta ti discrimina ma è al tempo stesso strumento di lotta e rivendicazione identitaria e politica.

Lo storico della scienza Ian Hacking definisce looping effect il fenomeno per cui, nel momento in cui studiamo una caratteristica, vi interagiamo modificandola, finendo così per creare una nuova categoria umana che, a sua volta, viene però modificata dal vissuto delle persone che la compongono. Prima del 1869, ad esempio, non esisteva la categoria dell’omosessualità, eppure sono sempre esistiti comportamenti che, a seconda della cultura, venivano considerati più o meno accettabili. L’omosessualità è stata considerata un disturbo psichiatrico fino al 1973, quando è stata eliminata dal Manuale Statistico Diagnostico dell’Associazione Psichiatrica Americana, soprattutto grazie alle pressioni dei gruppi di attivistǝ per i diritti delle persone omosessuali. 

Le categorie identitarie non sono mai statiche ma sempre in divenire, in continua definizione, e lo stesso vale per l’intersezione, la sovrapposizione delle identità e delle discriminazioni che queste si portano dietro. Piuttosto frequente è l’intersezione tra l’appartenenza al gruppo LGBTQIA+ e quello neurodivergente: tra le persone transgender c’è una più alta percentuale rispetto alla media di persone autistiche (Strang JF et al., Revisiting the Link: Evidence of the Rates of Autism in Studies of Gender Diverse Individuals, 2018), come è estremamente più alta la possibilità per una persona autistica, circa il 69,7%, di non essere eterosessuale (George R, Stokes MA. Sexual Orientation in Autism Spectrum Disorder, 2018).

Credo sia difficile stabilire quali siano i motivi di questa intersezione, ma vorrei soffermarmi sulla doppia esclusione che avviene in casi del genere. Una persona autistica ha un funzionamento sociale, sensoriale, cognitivo, differente dalla maggioranza della popolazione, anche dalla maggioranza delle persone LGBTQIA+. Una persona autistica e non eterosessuale, non binaria, transgender o agender, fa parte di una minoranza nella minoranza.

L’importanza di riconoscersi in un gruppo è parte della funzione identitaria dell’etichetta. Per me è stato così quando ho capito che quella sensazione di essere costantemente fuori luogo non era un difetto, ma che esistevano tante altre persone autistiche come me. Eppure non sempre mi sono sentito allo stesso modo in relazione alla mia omosessualità. Il mio funzionamento autistico mi ha sempre fatto sentire escluso da una serie di dinamiche sociali per me estremamente attraenti e affascinanti del mondo LGBTQIA+ che ho però vissuto spesso come inaccessibili.

Per una persona autistica il lato affettivo e relazionale può essere estremamente difficile da gestire perché prevede l’interazione con una società strutturata da e per persone non autistiche. Le modalità di approccio, il non detto, un ammiccamento o una battuta, non necessariamente vengono compresi perché alla base vi è la mancata condivisione di alcuni codici comunicativi e sociali tra i due gruppi.

Come approcciare una persona che ti piace? In che modo gestire una relazione duratura ma anche un incontro di una notte? E il contatto fisico, che per una persona autistica può essere estremamente peculiare? Come gestire le dinamiche sociali anche sulle app di incontri? E ancora, come viene giudicata una persona che ti parla senza mai guardarti negli occhi, o che in situazioni di ansia comincia a fare una serie di strani movimenti ripetitivi con le mani, o a dondolarsi sulla sedia? Quanto è considerata attraente chi sceglie l’abbigliamento in base alla comodità dei tessuti sulla pelle mettendo l’estetica in secondo piano?

Nonostante particolarmente presente, del funzionamento autistico nel mondo LGBTQIA+ si parla ancora troppo poco, eppure anche le persone autistiche hanno desideri, dubbi, sperimentano difficoltà, hanno bisogno di appoggio e supporto o semplicemente di sentirsi parte di una comunità con cui condividere una parte del proprio essere.

Un esempio di questa doppia esclusione è rappresentato dal Pride, momento di affermazione della propria identità, ma anche momento di incontro, scambio e svago. Eppure, il Pride può risultare inaccessibile sotto tanti aspetti a una persona neurodivergente, da quello sensoriale a quello sociale, passando per quello comunicativo, come ha ben documentato Simone Riflesso col suo SondaPride.

La discriminazione e l’esclusione non riguardano quasi mai un solo lato del nostro essere, una sola delle nostre identità. Troppo spesso discriminiamo involontariamente o escludiamo chi già vive un’esclusione, andando ad amplificarne la sensazione di solitudine e a volte di disperazione: persone escluse tra le escluse. La società deve essere in grado di garantire la convivenza di tutte le differenze, anche e soprattutto all’interno di uno stesso gruppo di minoranza.