COSA SIGNIFICA LA VISIONE DELLA SERIE DI RYAN MURPHY PER  LE PERSONE LGBT+

It  is all Hollywood, windowless.

Sylvia  Plath, Lesbos

Se solo non ci fosse stato il codice Hays. Se solo il cinema si fosse aperto alle differenze allora. Se solo la meravigliosa ucronia di Hollywood fosse realtà.

L’immaginario può cambiare la percezione del reale, e quindi la realtà stessa. È la mia ossessione di una vita. Cinefila dodicenne, probabilmente mi sono auto castrata e, non riuscendo a sognarmi come sceneggiatrice o regista, temendo di coltivare per anni sogni che si sarebbero amaramente infranti, mi sono buttata fin da subito nello studio delle rappresentazioni, della comunicazione, scoprendo presto quanto fosse più efficace veicolare una visione del mondo attraverso un film o un libro o un fumetto, piuttosto che con la quasi sempre stucchevole propaganda politica. Prima di diventare giornalista ho macinato anni di organizzazione di presentazioni, proiezioni, festival, amando molto il mio ruolo di veicolo per contenuti che mostrassero, nelle parole di una vecchia compagna, «percorsi di felicità possibile» per le lesbiche e per la comunità LGBT+ tutta. 

Non puoi essere quello che non vedi, recita il titolo di un articolo di Eugenia Fattori, e mai frase fu più vera. Tanto più in un mondo dominato dal racconto dell’uomo bianco, eroico, industrioso o miserabile, ma sempre universale dell’umano, dove le donne al massimo possono aspirare a ruoli ancillari. E il resto scompare, come canta Elettra. Persone di tutte le sfumature di colore, LGBT+, dai cosiddetti corpi non conformi, donne libere. Che fatica non essere mai viste, o nel migliore dei casi essere viste di rado, quando l’uomo bianco è in vena di esotismo o di darsi un’incipriata di correttezza politica. Una quota di rappresentanza in un sistema che fino a ieri non ti prevedeva, e oggi lo fa a malincuore, d’altronde è il capitalismo avanzato, bellezza, e siamo tutti nicchie di mercato. 

Spesso penso che vorrei avere vent’anni oggi, invece dei miei 44, non per la giovinezza in sé, che non vivevo come un valore nemmeno quando giovane ero, non certo per lo stato della Terra, che se vent’anni fa era malata, oggi ha un piede nella fossa e l’altro sul sapone (trucido ma onesto detto spezzino). 

Vorrei avere vent’anni perché significherebbe essere cresciuta, da baby queer, in un mondo che mi prevede al di là dei tre film che davano su Rete quattro alle 23 o su TeleMontecarlo alle due del mattino, al di là dei dibattiti televisivi dove un coraggioso Franco Grillini rispondeva alle inevitabili accuse «gli omosessuali sono tutti pedofili» o alla classica quanto agghiacciante domanda: «ma omosessuali si nasce o si diventa? Ci si può curare?». Al di là dei libri da scovare nella libreria progressista fingendo che non ci riguardino, al di là delle riviste comprate con circospezione, all’edicola notturna della post adolescenza spezzina, da Feltrinelli International quando riuscivi a leggere in inglese poi. 

Vorrei avere vent’anni per godermi le tante me stesse potenziali attivate dalle storie che posso raggiungere con facilità ogni giorno, benedetto sia Internet protettore di tutte le minoranze del mondo. 

Vorrei avere vent’anni perché, nonostante il mondo sia ancora dell’uomo bianco, le crepe nel sistema sono ormai così profonde da contaminarlo irreversibilmente. 

Intendiamoci, sono ancora nel fiore della mia mezza età, ho di fronte anni fecondi, e mi godo anch’io la mutata situazione. Ma è diverso quando le te stesse potenziali crescono con te fin da bambina: diventa più facile persino sognare.

Ryan Murphy si immagina, insieme a Ian Brennan, un mondo in cui quello che sta accadendo oggi nell’industria dell’intrattenimento sia avvenuto a fine anni ’40. Ci immerge in un mondo fatato di donne al comando, vecchie frocie che da serve del sistema diventano rivoluzionarie, amori inter-razziali, coming out, persone di colore al centro, alleati adorabili e non invasivi. Una varia umanità, ricompensata oltretutto con una pioggia di Oscar dall’Academy, struttura che ancora oggi conosciamo come bianca e patriarcale. 

Come sarebbe se il primo Oscar a una protagonista di colore fosse andato per davvero all’immaginaria Camille Washington invece che a Halle Berry nel 2001, praticamente l’altro ieri. Come sarebbe se non ci trovassimo a contare ogni anno la più o meno sparuta rappresentanza di candidati non maschi bianchi, senza dover coniare hashtag come #Oscarsowhite. Come sarebbe se avessero premiato per davvero Archie Coleman come sceneggiatore apertamente gay (oltre che nero) invece di Dustin Lance Black nel 2007. Come sarebbe se il povero Rock Hudson – e con lui una pletora di altri attori, produttori, registi – avesse potuto vivere apertamente la sua omosessualità invece di dare scandalo sui giornali di mezzo mondo come il primo attore famoso a morire di AIDS nel 1985. 

Camille nel suo discorso di accettazione dell’Oscar pronuncia parole che ancora oggi bramiamo sentire, parole che risuonano e deflagrano dentro di noi: «Adoravo guardare quello schermo, e ho aspettato a lungo di vederci qualcuno che mi somigliasse, una ragazza intelligente, forte e incantevole. Grazie all’Academy per aver fatto sì che nessun’altra bambina guardi quello schermo e le venga detto che ci sono dei limiti a ciò che può raggiungere».

La serie, non a caso, si chiude su un cartello Beginning, invece che su The end, portandoci a chiederci, e a immaginare, come sarebbe se qui e ora, nel 2020, l’ondivago progresso dei diritti umani e civili fosse avanti di 70 anni rispetto al nostro vero oggi

Come sarebbe se le nostre vite fossero più facili.

Facci sognare, Ryan, raccontala ancora.