In principio, c’era una bambina. Una bambina cresciuta con Barbie e Ken, le commedie romantiche anni Ottanta, e il mito di Cenerentola. Le lettere d’amore ai compagni di classe, il principe azzurro, qualche poster di Di Caprio appeso al muro.

Non so bene a quando (che sia stato Sex and the City a 10 anni?) l’avvento di due grandi scoperte: il clitoride e l’esistenza di donne che amavano altre donne. Abbracciato il piacere che poteva derivare da queste due scoperte, fuori dalla stanza tutta per me che mi ero costruita, ho commesso il grave errore di non parlare per molto tempo proprio di quello che lì vi accadeva. Figlia diligente e complice della mia periferia geo-culturale, per anni non mi sono posta il problema della mancata corrispondenza tra la stanza, la realtà di cui leggevo sognavo e guardavo le trame, e il mondo là fuori.

La svolta arrivò in terza liceo, quando arrivarono in primavera gli studenti canadesi. Pur avendo viaggiato altre volte prima, il cortocircuito tra il Canada e lo spazio paesano della provincia marchigiana non solo rese visibili diverse cose che prima ignoravo, ma rese reale quello che non sapevo potesse uscire fuori dal gioco o dalla finzione.

Ho cominciato così a vedere che mia mamma non aveva quasi mai il tempo di sedersi per mangiare, tra il cucinare e il lavorare. Ho cominciato a vedere il fastidio che davano i capelli corti e gli abiti considerati maschili su alcune compagne di classe (senza però capirci nulla). E solo da quel momento ho iniziato a baciare e a desiderare realmente le ragazze. A molti miei compagni doveva sembrare davvero cool quella fluidità, ai loro occhi importata dal Canada, tanto da emularla per poterne parlare poi con assurdo e grottesco esotismo, una macchia su tappeti e pareti della mia stanza.

Il fatto che per anni io non abbia affermato (ma nemmeno negato) la mia bisessualità è a oggi l’aspetto che più mi tormenta dell’identità e della coscienza politica in cui mi riconosco. Al liceo probabilmente non sapevo nemmeno di poter dare un nome al mio orientamento; tutto quello che potevo essere non c’era sul banco delle possibilità reali o meramente visibili. Sono sempre stata troppo piccola, anche quando ci si sarebbe aspettato quel salto di consapevolezza critica nell’adolescenza.

Guardando indietro e ripensando a quanto di quella stanza non ho detto e non ho raccontato, mi chiedo spesso se quell’ingenuità sia stata solo una mia colpa o se quel clamoroso ritardo sia stato conseguenza di tutto quello che la provincia nasconde e non ti fa vedere.

Poi sono arrivata a Bologna, mi sono portata dietro quella bambina, con una nuova stanza in affitto. E mi sono innamorata di una ragazza.

«Una figura materna, una sorella maggiore!». Non sono riuscita a convincere per molto tempo né i miei genitori, né alcuni amici, né la mia vecchia psicologa. Per loro dovevo essere una specie di frociarola, e di questo– ora che io ho aperto la stanza – mi sono francamente rotta la v****a! 

Pubblicato sul numero 61 della Falla, gennaio 2021