Voi certamente conoscete la terra in cui fioriscono i limoni: ce la siamo raccontata così, come la culla del Mediterraneo, il luogo in cui allo splendore delle origini, del suo paesaggio e della sua cucina si unisce il degrado della criminalità organizzata e della resistenza a questa; dove la gente (bassa, formosa e scura) nasce e muore povera come in un ciclo ineluttabile della Storia e quello che viene chiamato “progresso” quasi schivato con diffidenza. Se la conoscete, forse avrete sentito anche i suoi cantastorie principali vantare un pessimismo di pensiero insito nella lingua: in siciliano, infatti, non esiste il tempo futuro, così il presente è l’unica dimensione che ci lega. 

Quindi quando dico ai miei che ritornerò a Catania per l’estate, è in realtà «sto tornando», come se la mia partenza già cominciasse nelle intenzioni. Al mio biglietto accompagno i ricordi di un’adolescenza travagliata, di un silenzio sempre più ostentato dai miei genitori sulla mia sessualità, della subdola ostilità del liceo classico verso ciò che usciva da uno standard. Non tutte le persone attorno a me vivevano la stessa situazione: dai miei tredici anni, le mie amicizie eterosessuali si sono sempre contate sulle dita di una mano, lasciando spazio invece a una vasta compagnia queer, piena di esperienze diversissime tra loro. 

È capitato? Forse, ma capitava già da anni che chi si identificava nella comunità LGBTQ+ e nella scena underground e alternativa catanese si desse appuntamento «alle scale» di via Crociferi, creando una vera e propria dimensione aperta e attraversabile da chiunque. La mia comitiva e io, composta da persone queer e infrasciamate, eravamo di casa.  

Nonostante la nostra solidità di rete, per me e per altri miei punti di riferimento trasferiti al Nord è stato per anni più difficile scendere a patti con la propria identità terrona che con quella sessuale, spesso intersecando i due aspetti. Spintǝ da un’assimilazione strisciante e da una parallela gentrificazione che aveva trasformato Catania nella «Milano del Sud», abbiamo alleggerito gli accenti, abbandonato dei modi, trasformato le periferie che viviamo oggi come nostro centro di osservazione. 

Ce la siamo raccontata la nostra travagliata adolescenza anche come chi, prima di noi, aveva narrato la Sicilia, risolvendo l’una nell’altra, mentre la Sicilia come noi si ibridava.  

Certo, non è tutto rose e fiori, ma la dimensione di precarietà e discriminazione va contestualizzata. Quando lo scorso 30 maggio due ragazzi omosessuali sono stati aggrediti nel centro storico di Palermo, la solidarietà siciliana e nazionale è stata enorme. La sindaca di Torino, città natale dei due, ha commentato l’episodio con: «Vi aspettiamo a casa, ragazzi», nascondendo la strutturalità dell’omofobia dietro alla geografia. Perché a Zahira, ragazza trans catanese aggredita qualche giorno prima, non sia stata data la stessa copertura mediatica dei due ragazzi torinesi, mi riporta non solo alla narrazione di Appendino, ma anche alle e ai destinatariǝ di questa narrazione. 

Siamo cresciutǝ fuori dalla Sicilia, negli ultimi anni. Abbiamo conosciuto la marginalità e la discriminazione, la serenità e la gioia a Catania, a Bologna, a Torino, a Firenze. Cerchiamo ancora come e a chi raccontare la nostra vita complessa e ibrida, fuori e dentro la vecchia storia, con questa voce bastarda.