(Grâce à dieu, Francia, 2019, 137’)
Il film, ultima fatica del regista François Ozon, è liberamente ispirato da una storia recente: la scoperta di una rete di copertura ecclesiastica sugli iterati crimini di pedofilia commessi da un sacerdote di Lione.
Alexandre – un manager cattolico osservante e padre di cinque figli – scopre che padre Preynat, il prete che lo ha molestato durante l’infanzia, è tornato a svolgere le proprie funzioni nella sua diocesi. La Chiesa, nonostante i posizionamenti chiari del Papa, si rifiuta di sanzionare e allontanare Preynat. Alexandre, ripassando attraverso il trauma della violenza infantile, decide di lottare per rompere il silenzio sui casi come il suo e impedire il protrarsi degli abusi. Incontra sul suo percorso altri maschi cis etero abusati che cominciano, attraverso una serie di rimozioni, sofferenze e difficoltà, ad avere una presa di parola familiare e pubblica e a elaborare una strategia per reagire sul piano sia giuridico che mediatico.
Spiccano due figure memorabili, nei primi piani in luce aerea di Ozon: François (il cui cognome è Debord, come l’autore della Società dello spettacolo, citazione non casuale) ed Emmanuel. Il primo è un sanguigno etero-cis grasso e simil-gilet jaune che mette il cuore, pur martoriato, davanti all’ostacolo. Il secondo un bel tenebroso e disagiato outsider disoccupato, che si definisce «zebra», perché la zebra è un animale a suo avviso poco dotato per sopravvivere nella giungla del darwinismo sociale macroniano.
Ozon è un regista immenso e sa anche riempire il buco nell’ozono delle rappresentazioni mainstream del trauma di pedofilia, come Il caso Spotlight non ha saputo fare. Lo fa perché privilegia quello che Gilles Deleuze chiamerebbe il lupullare del branco, in questo caso l’aspetto soggettivo sofferto e relazionale dei molestati e violentati. E scopre così una realtà: un maschio che impara a fare i conti con traumi e abusi sessuali senza più celarli, ma nemmeno costruendo una mitologia dell’eroe stantia e reattiva. I personaggi di Grazie a Dio imparano a dirsi e a lottare nella società non solo per gli obiettivi del buon padre di famiglia. Il cambiamento è graduale, non muscolare, non indulge a facili utopie, tutto è ancora fragile, ma lentamente rinascono uomini nuovi. Emozionante vedere un percorso di liberazione sofferto, graduale, relazionale, dove le donne – pur non in primo piano come protagoniste, in questo film – sono già entrate, come Ozon evidenzia bene in alcune scene.
Uno smontaggio sapiente di miti e un rimontaggio di volti tesi e dolci che ci fa ricordare qualcosa che forse, nel dominio degli Erdogan, dei Trump e dei Putin, nonché dei Salvini, stavamo dimenticando: anche gli uomini sono umani.
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