Questa estate una mia cara amica stava aspettando il treno nella stazione della mia ridente – si fa per dire – cittadina marchigiana e si stava lamentando con me delle solite coppie di eterosessuali molesti che non ce la possono fare a non pomiciare platealmente in pubblico. «Beh, sai», risposi «dopotutto questa è la patria dell’eterosessualità obbligatoria». Al di là della battuta detta con una certa spontaneità, mi resi conto che la cosa non è poi lontana dalla realtà.
A volte si dice che in certi luoghi l’omosessualità c’è ma non se ne parla. Eppure l’atmosfera di certe piccole realtà porta a pensare che sarebbe più ragionevole imbattersi in un ircocervo che in una persona gay. A ogni luogo la sua mitologia, dunque.
Senza precisi punti di riferimento e permeati di pensiero eteronormato, sembra inevitabile ritrovarsi travolti da certe strane idee del tipo che va bene essere gay ma, insomma, con un certo contegno. L’ideologia borghese della dignità e della rispettabilità investe ogni fibra del tuo (gaio) corpo. Si lotta per i diritti? Sì, ma con discrezione: noi omosessuali – si noti anche il decoro linguistico: mai avrei detto frocie, finocchie, ecc – vogliamo dei diritti ma senza scardinare lo status quo. Vogliamo solo un angolino dove nasconderci perché la sessualità è una cosa privata, un tesoro da conservare timidamente dentro di noi, una feritoia dove poterci esprimere liberamente, senza essere visti.
Col senno del poi aggiungerei che, più precisamente, il nostro tesoro lo conserviamo nel culo («ma il mio culo è aperto a tutti», diceva Mario Mieli).
Cosa succede quando il me del passato che, in modo piuttosto confuso, pensava queste e altre cose dal simile contenuto, si imbatte in una realtà completamente diversa come quella dell’università e di Bologna? Inavvertitamente esplode. Con un modo di fare che spiazzava moltə delle mie compagnə di università, mi presentavo dicendo: «Piacere, sono Leonardo, una ragazza tutta pepe». Non posso negare che simili uscite mi saranno capitate anche al liceo ma solo ed esclusivamente con lə miə amichə strettə, mai e poi mai con unə estraneə.
Era come se, dopo anni passati a mantenere un profilo basso, mi fossi stufata e avessi deciso di imporre la mia queerness senza pudore né ritegno. Seppur ancora molto ingenua sotto diversi punti di vista, era come se già avessi raccolto e compreso il gaio imperativo di reinterpretare tutto dal nostro punto di vista. Questi primi passi hanno portato sia a una totale ricostruzione del mio linguaggio, sia a una, seppur lenta, trasformazione della mia esteriorità (ben documentata dai Pride bolognesi a cui ho partecipato).
Presto sono comparse le prime collane, poi gli orecchini, lo smalto e il trucco.
«Che non sia mai che mi si scambi per un eterosessuale!», dicevo – e dico tutt’ora – in totale frattura, a tratti separatismo, contro una società che ha a cuore non le persone queer ma la loro possibilità di consumo; insomma: frociarismo o barbarie.
La mia improvvisa schiettezza ha preceduto la consapevolezza politica che sarebbe arrivata più tardi e che mi avrebbe permesso di inquadrare la mia situazione personale in un contesto più ampio: l’oppressore è più subdolo e sfaccettato di quanto sembri.
Dopo qualche anno a Bologna mi sono reso conto che lə miə amichə eterosessuali si contavano sulle dita di una mano: mi ero costruita un intero mondo tutto per me; un mondo e non un’angusta camera di qualche decina di metri quadrati.
Immagine 1 da: Corriere della Sera
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