Chi mi ama non mi tema
di Francesca Anese
Il momento del coming out è la svolta che consente a ciascuno di sentirsi libero di essere se stesso.
Una volta superato il confine non ci si deve più nascondere, c’è una sorta di rinascita, ma se invece di una sola rivelazione, ce ne fossero due e il segreto tanto a lungo custodito non si limitasse al fatto che piacciano persone dello stesso sesso?
Una volta ammesso alla migliore amica di provare qualcosa per lei, fatto il lancio nel vuoto, come spiegare senza fraintendimenti che non si escludono fantasie con maschi? Ogni volta ci sono delle spiegazioni in più da dare e perplessità che raddoppiano nel momento in cui si specifica il proprio orientamento sessuale. Spesso si finisce per allinearsi a quello del partner di turno, o a dichiararsi omosessuale o eterosessuale a seconda del contesto in cui ci si trova. La paura del diverso dilaga anche nella comunità LGBT+ quando si guarda con sospetto e incredulità a quelle persone che si dichiarano bisessuali. È difficile empatizzare con un sentimento che non ci appartiene, perciò diventa quasi spontaneo pensare che quando una relazione finisce e ne inizia un’altra, con un partner di sesso diverso da quello precedente, la persona abbia cambiato idea.
La comunità omosessuale finisce per porre la stessa domanda che si è sentita rivolgere in passato: “quindi hai scelto?”. Come se le persone bisessuali non provassero attrazione o sentimenti istintivamente, ma avessero la possibilità di decidere di chi innamorarsi, da chi essere sedotti, in ogni situazione.
La diffidenza nei confronti della bisessualità ha radici profonde: i primi movimenti per i diritti LGBT+ non sono scaturiti, statisticamente parlando, da quei componenti della comunità che potevano nascondere senza troppe difficoltà il loro orientamento, primi fra tutti dunque i bisessuali, visti come coloro che avevano l’opportunità di scegliere il genere della propria anima gemella. Si è a lungo parlato, negli anni della rivoluzione sessuale, di “Lesbians until graduation” come fenomeno culturale che vede ragazze, solitamente di classi sociali privilegiate, vivere avventure omosessuali negli anni del college come segno di ribellione adolescenziale contro il patriarcato o rivendicazioni femministe, con il risultato di relegare tutta la bisessualità a un momento di confusione o sperimentazione che verrà superato. Nel 2003 il New York Magazine utilizza il termine “hasbian” nell’articolo Bi For Now: la bisessualità non esiste, ci sono solo divertimento e voglia di trasgressione che vengono presto sostituiti dalla necessità di accasarsi e mettere la testa a posto.
Se è una ragazza allora le piacciono le cose a tre e viene ridotta a fantasia erotica maschile, oggettivata dai ragazzi e disprezzata dalle lesbiche vere. Se è un ragazzo ha soltanto paura di fare un coming out come si deve, allontanato dalle ragazze che non vogliono certo fare da copertura e stigmatizzato dai gay che hanno avuto le palle di dichiararsi.
Chi entra a diretto contatto con la bisessualità tende a essere più geloso e ingigantire lo spettro del tradimento, ma a incombere è la paura, diffusa per tutti indistintamente, di non essere abbastanza: quando la realtà di un orientamento diverso dal proprio è concreta nella persona che si sta frequentando, si teme che allora, si sia maschio o femmina, ci sia comunque qualcosa che il partner bisessuale cerca e che manca.
Eppure sono sempre di più le coppie a orientamento misto che escono rafforzate dal secondo coming out di uno dei componenti. La lotta della comunità LGBT+ si basa sul diritto di non essere giudicati per la propria sessualità, di avere un’identità che non del tutto assorbita da essa. Bisessuale non significa essere 50-50%, né essere confusi né infedeli, significa essere potenzialmente attratti da entrambi i generi, con più o meno propensione, è una preferenza che non deve essere messa in discussione e che non influisce sull’atteggiamento della persona in sé.
pubblicato sul numero 34 della Falla – aprile 2018
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