Che cosa vuol dire richiedere asilo in quanto persona LGBT+: quali sono le esperienze, gli ostacoli, le potenzialità? Abbiamo intervistato Jackie Yodashkin, Responsabile comunicazione di Immigration Equality, organizzazione di New York che dal 1994 si occupa di assistere le persone LGBT+ e sieropositive richiedenti asilo.

Come sei arrivata a fare questo lavoro?

I miei genitori e nonni sono fuggiti dall’Unione Sovietica per non abbandonare la loro religione. Sono cresciuta in una comunità di migranti con famiglie da tutto il mondo. Dopo oltre dieci anni di attivismo LGBT+, negli Stati uniti e all’estero, l’occasione di lavorare con le persone LGBT+ richiedenti asilo mi è sembrata fantastica. I nostri utenti sono fra le persone più coraggiose che conosco: insegnanti, attivisti, artisti, medici, genitori che hanno sacrificato tutto per cercare una vita migliore e più sicura. La loro forza è una fonte di ispirazione quotidiana.

Chi sono i tuoi colleghi?

Abbiamo diversi profili: migranti di prima e seconda generazione, persone queer e alleate, di diverse classi sociali. Molte parlano correntemente due o più lingue. Tutte sono qui perché hanno a cuore la sicurezza e il benessere delle persone migranti LGBT+ e sieropositive. Alcuni dei nostri utenti sono diventati parte dello staff o portavoce, e questo significa molto per noi.

Ci puoi dare un quadro generale delle persone e delle storie con cui venite a contatto?

La maggioranza viene da Giamaica, El Salvador, Honduras, Messico e Russia. In generale più uomini che donne, perché in molti paesi le donne hanno meno libertà di movimento: in alcuni casi, non possono nemmeno ottenere un passaporto senza l’autorizzazione di un padre o marito. Alcune di queste storie sono raccontate nel progetto LGBT+ New Americans (www.youtube.com/user/ImmigrationEquality).

Che cosa vuol dire richiedere asilo come persona LGBT+?

Le persone LGBT+ che richiedono asilo vengono qui perché rischiano la vita. Spesso non hanno niente con sé, solo i vestiti che indossano. Molte sono reduci da esperienze terribili e spesso, a differenza delle persone migranti non LGBT+, hanno tagliato i ponti con le famiglie di origine. Ma anche qui trovano molti ostacoli: non conoscono le nostre leggi, spesso non conoscono nessuno, non hanno denaro e non sono autorizzate a lavorare. Noi forniamo assistenza legale gratuita e interpretariato, ma i bisogni sono molto più ampi, ad esempio assistenza sanitaria e psicologica specifica. Il nostro sistema legale ha molti problemi e noi cerchiamo di fare rete con i soggetti che possono aiutare i nostri utenti con le competenze specifiche necessarie.

Qualche storia a lieto fine?

Le persone con cui lavoriamo non sono vittime o soggetti passivi di assistenza. La nostra società è più ricca grazie a loro. Prendiamo Denise, una donna transgender brutalmente perseguitata in Trinidad. L’abbiamo incontrata al Pride e ha da poco ottenuto la sua green card! Oggi assiste le persone malate a domicilio e fa attivismo per la comunità LGBT+. Oppure Tamara, che all’università ha fatto coming out e ha cominciato a fare attivismo. La voce è arrivata a casa, in Giamaica, dove l’omosessualità è criminalizzata. Tamara aveva paura di tornare e rischiava di perdere il visto studentesco. Con noi ha ottenuto l’asilo; ora ha un ottimo lavoro e ha sposato la sua compagna da dieci anni. Oppure Ishalaa, un’attivista transgender messicana. Ishalaa era la principale portavoce del gruppo LGBT+ locale e aveva organizzato delle proteste contro un candidato governatore esplicitamente anti-LGBT+. A luglio 2013, dopo alcune minacce di morte, Ishalaa ha deciso di scappare e si è presentata al confine con gli Stati Uniti. Dopo oltre un mese di detenzione e due anni e mezzo di attesa, ha ottenuto l’asilo. Anche se ha lasciato la sua comunità d’origine, ha portato qui la sua esperienza di attivista e la sua figura e la sua forza sono fonte di ispirazione anche per noi.

pubblicato sul numero 19 della Falla – novembre 2016

foto da Immigration Equality