Si è scritto e parlato molto in Francia della Petite Dernière, opera d’esordio di Fatima Daas, autrice francese di origini algerine, appena tradotta in italiano per la casa editrice Fandango a un anno dalla sua prima uscita. Le ragioni della risonanza critica e di pubblico risiedono in parte nelle implicazioni politiche e culturali di cui si carica il racconto in prima persona di Fatima, donna lesbica, musulmana, poliamorosa, banlieusarde cresciuta nella periferia parigina di Clychy-sous-bois. Variamente definito un monologo autobiografico, un’auto-fiction o un romanzo, La più piccola si posiziona nella nebulosa della scrittura di sé avvicinando da una prospettiva intersezionale il punto focale dell’indagine autobiografica: il tema dell’identità.

Quando Jean-Jacques Rousseau pubblica la prima parte delle Confessioni siamo a pochi anni dalla Rivoluzione Francese. L’autobiografia, di cui occorre specificare l’importanza peculiare rispetto alla realtà francofona, nasce quindi nel contesto dell’esaltazione illuminista della ragione umana e della piena valorizzazione del singolo individuo. Non a caso, a pochi anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino – maschio bianco, eterocisgenere – si afferma il cosiddetto mythe du moi – mito del sé – su cui l’autobiografia si plasma come genere narcisistico per definizione, vista la coincidenza tra oggetto e soggetto dell’indagine.

Con la crisi dei valori umanistici già in atto dal secondo dopoguerra e la stagione dei movimenti studenteschi femministi e decoloniali – si pensi per esempio all’impatto della Rivoluzione algerina – l’abbandono dell’Io e del Soggetto come identità associata al genere maschile bianco occidentale, sembra fungere da camera di smontaggio del grande Discorso letterario, e quindi anche del genere autobiografico. 

La possibilità di dire “io” non potrà che sopravvivere nel racconto dell’Altro da sé o nella voce delle istanze collettive, nella volontà di dire “noi”. Gli Anni di Annie Ernaux – autrice per l’appunto di un’autobiografia collettiva – fissa molto bene questo momento di passaggio che interessa la società e che la letteratura incarna nelle sue forme. Come scrive Ernaux, è l’aver avuto esperienza di qualcosa, così come il fare parte di una rete e di una comunità, che «dava il diritto di dire io».

Specie a partire dagli anni Ottanta, è proprio dai margini che le nuove voci traggono il loro linguaggio in prima persona. Margini di identità francesi che sono percepite come non abbastanza francesi, come Altro, ghettizzate negli spazi periferici delle banlieues. Pensiamo al fenomeno della letteratura beur (in gergo popolare “araba”) che prende vita nelle realtà francesi di origine magrebina, anche per riappropriarsi della scrittura autobiografica come spazio negato all’Altro della possibilità di dire “io”. Fatima Daas e altre autrici come Faïza Guène potrebbero rappresentarne oggi gli esordi di una nuova generazione.

L’indagine dell’identità si innerva nell’esperienza di discriminazione razziale e religiosa vissuta dalle comunità arabo-musulmane all’interno della società francese. Il racconto di un sé situato nella società passa anche attraverso la decostruzione di universalismo repubblicano, già parziale, come fondamento di quella francesità ideale e normativa.

La più piccola di Fatima Daas s’inscrive fin dal titolo in questa tradizione. Tematizza e rivendica la propria marginalità, manifestando il senso d’impostura proprio con la volontà di scrivere a partire dalla lingua. Disseminato di termini ed espressioni arabe, il linguaggio è restituito al soggetto, connotato qua e là dall’inversione delle sillabe propria del verlan, il gergo popolare nellə giovani francesi. 

La contaminazione linguistica è la strategia con cui rinegoziare il proprio spazio e rivendicare la legittimità di occuparlo come soggetto che scrive. Si potrebbe dire che l’uso del gergo assuma un valore metalinguistico e quindi politico quando è posto in un contesto come quello francese dove è forte la glottofobia, un’altra discriminazione, su base linguistica.

La filiazione letteraria con Annie Ernaux anima l’intertesto di Daas, specie nella riscrittura del tema della vergogna, uno dei luoghi comuni della scrittura di sé e delle sue forme di riappropriazione. L’attraversamento della propria vergogna non sta solo nel dirsi mazoziya – “la figlia più piccola”, in arabo-algerino – non desiderata, povera e banlieuse, ma anche nella confessione della propria omofobia interiorizzata o nell’espressione del rapporto conflittuale con il genere assegnato alla nascita.

In questi nuovi luoghi del sé l’espressione di denuncia dell’eterosessualità obbligatoria è non tanto nell’esperienza di donna lesbica in una famiglia musulmana, ma di donna lesbica e musulmana nella società francese; del binarismo di genere e della monogamia obbligata. Vengono così a scomporsi i tasselli ulteriori del mito nazionale di francesità, nato per ragioni d’ordine e unità nazionale. A partire da un approccio intersezionale al tema dell’identità e decoloniale, rispetto al genere letterario stesso, lo specchio di Narciso perde acqua e sfalda i bordi della nebulosa autobiografica.

Per saperne di più sull’autrice Fatima Daas si consiglia l’intervista con Lauren Bastide nella puntata n. 86 del podcast francese La Poudre (della puntata n.100 abbiamo parlato qui.https://lafalla.cassero.it/la-poudre-pensare-le-future-femministe/