A PROPOSITO DEL CORPO DELLE DONNE, DI MORELLI, MANSPLAINING E AVANCE NON RICHIESTE. CON UN ESEMPIO PRATICO

Di Irene Moretti

 

Le parole dello psichiatra Raffaele Morelli a Rtl prima e a Radio Capital poi sono solo la punta dell’iceberg di un pensiero in realtà molto diffuso: le donne, per alcuni uomini, sono un oggetto sessuale e niente di più e una donna acquista importanza solo in relazione e in proporzione alla sua desiderabilità. Le uscite tremende di Morelli – il suo «Zitta e ascolta» rivolto in diretta a Michela Murgia è la prova provata che il «non c’è niente di più imprevedibile e pericoloso dell’ego ferito di un uomo, soprattutto se eterosessuale» è vero – rispecchiano un sentire che nei casi più estremi sfocia nel fenomeno incel e nel revenge porn, un sentire che per quanto si voglia validare e legittimare dietro l’effige della psichiatria e della medicina altro non è che un compendio pret à porter del machismo patriarcale.

In che senso? In questo: «Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi, perché vuol dire che il suo femminile in qualche modo non è presente in primo piano. (…) Il femminile è il luogo che trasmette il desiderio, se le donne non si sentono a proprio agio con il proprio vestito tornano a casa a cambiarsi. Noi uomini siamo più unilaterali la donna invece è la regina della forma, la donna suscita il desiderio guai e se non fosse così». Ogni singola frase di Morelli lascia sottintendere che la donna possa definirsi tale solo in relazione al desiderio che è in grado di suscitare in un uomo. Se non ci riesce, non vale nulla. Se neanche lo vuole è sbagliata. Se una donna si oppone alla prepotenza e alla prevaricazione dell’uomo, deve imparare a stare zitta.

Per gli uomini, invece, vale il boys will be boys che – oltre a non farli giocare con le bambole (sic) – fornisce loro un alibi formidabile per scrollarsi di dosso ogni responsabilità: siamo noi donne –  rispondendo come Murgia, mostrando la scollatura come ho fatto io in una foto o semplicemente essendo donne – che ce la cerchiamo innescando quegli istinti animaleschi che l’uomo è programmato dalla natura per avere. Quegli istinti, per esempio, che rafforzati dall’unità del branco ha spinto un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti di Udine, ad autodefinire la propria comitiva “Centro stupri” , talmente sicuri della legittimità e dell’impunità del loro comportamento da esibire fieri magliette inneggianti allo stupro sui social. Istinti fomentati da una cultura patriarcale e maschilista che fa sentire gli uomini – non tutti, ma molti – legittimati al catcalling, allo slutshaming quando le donne non ci stanno  e alle avance esplicite in ogni occasione e quasi sempre non richieste. 

Chiedete alle vostre compagne, amiche, sorelle, madri quante volte si sono sentite oggetto di sguardi predatori da uomini sconosciuti. 

Chiedete alle vostre compagne, amiche, sorelle, madri quante volte hanno dovuto subire apprezzamenti anche pesanti in contesti che dovrebbero essere sicuri come il posto di lavoro, una spiaggia o una palestra. 

Chiedete alle vostre compagne, amiche, sorelle, madri quante volte, dietro alla apparente immunità dei social, si sono ritrovate loro malgrado vittime di attenzioni non richieste. Chiedete loro quante volte un uomo, con paternalismo e supponenza, le ha spiegato perché sono sbagliate. Poi chiedetevi quante volte è successo a voi. 

Se non avete voglia di chiedere, vi facciamo un esempio: se una donna pubblica sui suoi profili social una foto con il seno in evidenza non sta necessariamente chiedendo la vostra attenzione, sta semplicemente pubblicando una foto che le mette il seno in evidenza, senza secondi, terzi o quarti fini. Non siamo attention whore e viviamo benissimo anche senza sapere cosa ne pensate del nostro seno o di cosa vorreste farci (a noi e al nostro seno). E soprattutto viviamo con consapevolezza il nostro corpo.

La foto che vedete qui sotto è stata pubblicata sia su un profilo Facebook con restrizioni che su un profilo Instagram pubblico. Tra gli hashtag #lesbica, che più che essere un deterrente fa scattare in alcuni uomini la sindrome del «Il mio pene ti salverà». 

Chi ha pubblicato la foto su Instagram – spoiler: sono io – sapeva benissimo a cosa stava andando incontro. Al post pubblico sono seguiti subito messaggi privati. Tanti. Da sconosciuti italiani e non. L’approccio più diffuso è stato «Belle tette» e le frasi a seguire – incalzate dalle domande sul perché stessero scrivendo a una sconosciuta su Instagram – tutte intrise di quel machismo patriarcale e paternalistico di cui sopra. «Hai letto gli hashtag?», si chiede. «Ora sì, ma lo stesso ti avrei scritto perché sei bella». E quindi? «Mi stai facendo perdere tempo con questo interrogatorio», risponde: una donna non disponibile è una perdita di tempo, una donna che fa domande è una seccatura. 

C’è poi chi si sente il diritto di spiegarti perché pubblicando la foto te la sei cercata, con un pizzico di lesbofobia perché non fa mai male

Insomma: hai postato una foto in cui sei scollata, sei lesbica dichiarata e chiedi perché hai voglia di commentare in privato e la riposta è “tette, te la sei cercata”. E per fortuna che era femminista.

Non neghiamo l’erotismo del seno, ma chiediamo: perché un corpo femminile deve essere necessariamente sessualizzato se non addirittura iper sessualizzato?

Perché lo sguardo maschile deve essere sempre – o quasi – predatorio?

Perché mostrare qualche centimetro di scollatura viene interpretato come essere disponibili?

Perché molti uomini si sentono legittimati ad agire come agiscono?

Vi sveliamo un segreto: noi donne non viviamo pensando esclusivamente a come soddisfare i vostri desideri e appetiti. Ci sentiamo realizzate comunque e spesso una foto su una spiaggia è solo una foto, indipendentemente da quanto seno scopra.

Essere oggettificate, sessualizzate, sentirsi fischiare per strada, ricevere foto dei vostri falli – o di qualsiasi altra parte del corpo – o dover leggere una chat non richiesta in cui si fanno insinuazioni non richieste non ci piace ed è un concetto talmente semplice che sembra banale. Solo che non lo è. Quindi, per una volta, provate a mettervi nei nostri panni. Possibilmente senza toglierceli con lo sguardo.

State zitti voi per una volta. E ascoltateci.