di Irene Moretti
Me la ricordo bene la notte in cui Wikileaks rilasciò il primo gigantesco blocco di cablogrammi in rete. Lavoravo per una piccola emittente radiofonica ed ero l’unica a masticare quel tanto di inglese necessario per tradurre in tempo reale alcuni di quelle centinaia di migliaia di messaggi non più segreti. Eravamo tutti in attesa che venissero rilasciati quelli relativi all’Italia: eravamo ansiosi di scoprire quali nefandezze il presidente Usa pensasse di Berlusconi. Vivemmo quelle ore come un momento epocale, come un’operazione di disclosure che ci avrebbe finalmente portati verso un mondo senza più segreti, più democratico, più libero. Ci sbagliavamo, ma il nostro fuoco sacro ci impediva in quel momento di essere lucidi. Dovevamo sapere. Il mondo doveva sapere e Wikileaks era là per rispondere ai nostri appelli. L’entusiasmo svanì presto.
Quello che non sapevamo era chi fosse stato l’artefice di una fuga di notizie così massiccia. Certo, conoscevamo tutti Julian Assange, ma nessuno di noi ancora sapeva che l’unica persona a pagare – piuttosto pesantemente – sarebbe stata Chelsea Manning, che allora ancora aveva scritto Bradley sui documenti.
Se avessimo conosciuto la storia di Chelsea, e se ci fossimo immaginati quello che le sarebbe successo dopo, probabilmente il nostro entusiasmo si sarebbe spento molto prima. Ogni storia ha bisogno di un capro espiatorio e Chelsea – seppur materialmente colpevole – ha incarnato il suo ruolo perfettamente. Aveva ventisei anni, Chelsea, quando è stata condannata a trentacinque anni di prigione per alto tradimento. Durante il periodo delle guerre in Iraq e Afghanistan ha servito l’esercito come analista di intelligence: tutti i documenti che Assange ha reso pubblici sotto il vessillo di Wikileaks erano stati trafugati da lei. Trentacinque anni per alto tradimento, a Leavenworth, Kansas. Un carcere maschile. Vige ancora, nelle forze armate statunitensi, la legge Don’t ask, don’t tell, abolita qualche anno dopo da Barack Obama e che vieta il coming out ai militari. Ma Chelsea, in un’intervista rilasciata a Cosmopolitan, decide di rompere il silenzio e annuncia di voler cambiare i suoi documenti: addio Bradley, benvenuta Chelsea.
Manning si è sempre sentita una donna e vuole intraprendere il percorso di transizione, in carcere. Il suo calvario, quello vero, inizia qui. Una donna transessuale in un carcere maschile, osteggiata dalle alte sfere delle forze armate che, in un primo momento, nonostante il nullaosta dei medici che le avevano riconosciuto una disforia di genere, le negano le cure ormonali. Chelsea tenta il suicidio. Inizia lo sciopero della fame. Racconta alla giornalista di Cosmopolitan le angherie subite in carcere, il bullismo subito in adolescenza e anche nell’esercito, colpevole, a suo dire, di avere un cellulare rosa. Chelsea racconta del suo conflitto interiore, della paura dello stigma in un mondo machista come quello militare. La paura di strumentalizzazioni.
Ma le vittorie arrivano. Le cure ormonali le vengono garantite, il placet per gli interventi chirurgici viene dato. Le viene concessa una cella singola, un bagno privato, sebbene la legge americana sancisca che i prigionieri transgender che non si siano sottoposti alla chirurgia per la riassegnazione del sesso vengano detenuti insieme alle persone del loro sesso biologico. Chelsea riprende in mano la sua vita, lentamente, diventa la prima persona transgender negli Stati Uniti alla quale sia stato concesso di intraprendere il percorso di transizione in carcere.
E poi il colpo di scena: la grazia. L’ultimo atto di Obama fa pregustare a Chelsea la libertà. Il 17 maggio, fortunata coincidenza con la giornata mondiale contro l’omobitransfobia, Chelsea fa sapere con un tweet che sta finalmente muovendo i primi passi fuori dal carcere. Avrà finalmente la libertà di farsi crescere i capelli – in carcere le era vietato. Avrà la possibilità di essere una donna ma, soprattutto, una donna libera, nel più ampio senso del termine.
pubblicato sul numero 26 della Falla – giugno 2017
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