Una visione della pièce “Giusto la fine del mondo”

Lo scorso Gennaio, al Teatro Metastasio di Prato è andata in scena Giusto la fine del mondo, opera di Jean-Luc Lagarce, per la regia di Francesco Frangipane, una pièce teatrale contemporanea e disturbante che mostra gli ultimi anni di vita dell’autore francese, tra le più rappresentate in patria ma perlopiù sconosciuta in Italia. Egli, che morì per complicanze legate all’AIDS, ci ha lasciato, come testamento artistico, un tremendo e insostenibile grido sull’incomunicabilità.

Louis è uno scrittore sierocoinvolto di trentaquattro anni che decide di partire per il suo paese natale e annunciare la sua morte. Ma sono trascorsi dodici anni dall’ultima volta in cui è tornato a casa, un tempo più che sufficiente per diventare un estraneo: la lontananza, infatti, ha creato uno specchio in cui è difficile riconoscersi e з cinque protagonistз gravitano sulla scena alla ricerca di una risoluzione identitaria che non c’è. Essз si materializzano con prepotenza e disegnano l’immagine fioca di una famiglia anticamente felice ma peccaminosa nell’ipocrisia. Così facendo, la madre, la sorella, il fratello e la cognata, inghiottono la vitalità di Louis, che, di conseguenza, sottostà a un regime sentimentale ambiguo e oscillante, in perenne conflitto tra amore e rancore. 

I temi centrali di questo testo potente sono l’amore e il silenzio che si scontrano e ci feriscono. Le commensali, riunitз al tavolo da pranzo, perno della scena, evitano di sentire Louis, che, in risposta, siede in un ascolto errabondo: ogni suo tentativo di prendere parola è interrotto da monologhi violenti e repressivi. I confronti che nascono non hanno il fine dell’ascolto: in quell’ambiente angusto ci si evita, non ci si comprende, si fugge e ci si accusa. L’unico linguaggio condiviso è il silenzio. C’è violenza, fisica e verbale. Ci sono rancore, invidia, dolore. Le parole rimangono sospese in un limbo scomposto, senza che il loro significato si amplifichi. Niente sembra avere senso perché tutto è già perduto: tuttз, a turno, si confondono in una morte simbolica, figlia dell’incomprensione. “Louis”: questo nome viene lanciato sulle pareti innumerevoli volte, ma rimbalza senza conseguenze. Egli, racchiuso in un torpore difensivo, è assente, in un paradossale ruolo da spettatore. Le parole, che servono a plasmare la realtà, sono inghiottite dalla necessità di esternare le proprie frustrazioni, in un asettico bisogno di dire, perdendo, così, di valenza, e ciò che è taciuto diviene irrecuperabile. «Ho fatto sesso con un uomo e ora sto per morire. Una morte che ho scelto, di cui sono colpevole». Questo è quello che avrebbe voluto dire, come un moderno Cristo penitente.

Ciò da cui vuole mettere in guardia l’autore è la solitudine emotiva che inghiotte tuttз noi: nel testo, assunto a esempio immortale, la mente soffoca nel tentativo di raggiungere una catarsi che non c’è. Non si sopravvive a questo spettacolo, è sconvolgente, a tratti kafkiano, da vedere con cautela per imparare a parlare e ad ascoltare. з personaggз sono fantasmi di difficile identificazione che si palesano attraverso il loro irrisolto e instaurano dubbi, confusione, mentre l’aspettativa dell’annuncio, grave e necessario, della morte, trascina la platea in un orgasmo infinito: Louis, infatti, andrà via senza aver rivelato il reale motivo della sua presenza.

Ma dopotutto perché avere paura? È solo un pranzo in famiglia.

Immagine di copertina da cittadellaspezia.com, immagine nel testo argot.it