Il sapore aspro delle fabbriche male innestate ai bordi della campagna spesso nel ricordo si confonde e sembra diventare più dolce. La nostalgia può fare un effetto strano, a volte.
La fabbrica, quella vicino al fiume, ormai è svuotata. Una grossa massa grigia di cemento morente. Appena a pochi metri di distanza, percorsi in sella alla bici, la strada ha già lasciato l’asfalto per divenire sterrata. Trattenendo il desiderio di voltarsi indietro e con aiuto dell’immaginazione, si potrebbe quasi avere l’impressione di essere già in piena campagna. Manca poco in realtà, non molti altri colpi di pedale, tutti in salita. Dopo aver attraversato la boscaglia, mentre i muscoli delle gambe cominciano a bruciare, resta in attesa l’ultima curva, dietro la quale tutto sembra esplodere all’improvviso. Ci sono filari di vite, infiniti, i campi, gli alberi che rimangono lontani, lo stradone lungo, docile, polveroso, qualche uliveto improvviso.
Solo qualche anno fa mi ritrovavo a pedalare in quell’apertura che vedevo come un immenso rifugio a cielo aperto, lontana una manciata di chilometri dalle cittadine del Valdarno, in quel confine tra province e periferia della periferia, abbracciato dalle balze. Erano rifugi, forse anche prime prove di fuga, prima di quella che mi portò tra altri colli, questa volta con un treno.
Prove di fuga da quel mucchio di case là in fondo, dalla piazza in centro, dalle mura mezzo crollate, dai gelati del bar Marisa, dai bar di piazza vissuti come una religione, dai visi, dalle voci. Voci che mi definivano, prima ancora che fossi in grado di definirmi. Voci che definiscono tutti e che sanno tutto. Che spesso scherzano e deridono senza che si possa rimanere offesi, perché siamo toscani, si ha il diritto di scherzare su tutto.
Quando ritorno tra quelle mura, come uno dei pochi che se n’è allontanato, quei luoghi raggiunti in bici con pedalate furiose tornano ad avere quell’aspetto di spazi sicuri, liberi. Sono i rifugi dagli sguardi, dal vecchio compagno di scuola, a cui ti presenti con un nuovo nome e che ti guarda con volto stranito, dal suo rifiuto di concederti i giusti aggettivi e pronomi, nonostante la richiesta. Liberano momentaneamente da quell’avvertimento costante, che qualcuno, soprattutto tra queste valli immobili, ti guarderà sempre come un’imitazione opaca di qualcos’altro. Sono anche luoghi in cui puoi dimenticare di essere bandiera, stendardo, ambasciatore mancato; ruolo talvolta involontario, ma spesso assunto sentendolo quasi come necessario. Sono i rifugi dall’essere ormai incapace di perdonare dopo una, due, tre volte, tutti i «per abitudine ti chiamo al femminile». Sono i rifugi dalla mia mancanza di gratitudine per il fatto che sì, è vero, «poteva andarmi molto peggio». Sono i rifugi da un nome, che ancora si fa fatica a non usare e che quando esce rimbomba nella stanza, risuona per le strade come un’eco. Forse lo sento solo io.
Posso sempre prendere la bici. Pedalare, passare accanto alla fabbrica, la salita, raggiungere quei rifugi dove l’eco non arriva.
Pubblicato sul numero 52 della Falla, febbraio 2020
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