di Valentina Pinza
C’era la pineta. Molta pineta, tutta da assaltare in bicicletta.
Più in là la sabbia, le dune, e il mare. Soprattutto il mare
frusciava, ci fosse il sole o il grigio della nebbia a confondere, sparigliare l’orizzonte.
Quelle lunghe passeggiate furiose sulla spiaggia. I passi non sembravano passi
erano pestate a terra, divellamenti di zolle, sudate fredde nel cappotto
per arrivare in fretta da qualche parte e poi tornare indietro, a casa.
L’ultima volta che ricordo, qualche lacrima e infantili struggimenti:
l’età dei perché rigettata tutta in una marcia fino a Cesenatico e ritorno
ben quattro chilometri di perché. Tradizione anagrafica: perché sì.
Ora penso: ero davvero piccola. Ero microscopica, scossa da sintomi inequivocabili,
ero da riempire di parole cercate a naso in libreria, ero da trattare con indulgenza.
Ora penso: non qualcosa che mi parlasse, ma il bisogno di tante nuove parole per dirmi da sola, da combinare a piacere. Tema libero.
Sono passati altri diciassette anni, precisi, sull’unghia.
Erano le periferie dentro di me che andavano illuminate, smosse, riappacificate.
Andava abbandonata la piazza principale, abbandonato il cielo azzurro sui tetti fitti, abbandonate le strade trafficate, abbandonata la folla, le persone. Tutte.
Per il tempo necessario.
Lasciar andare la paura dei viali silenziosi e deserti,
dei tacchi delle scarpe che echeggiano nella notte, che battono nel vuoto delle luci coperte dagli alberi; di qualcuno in attesa dietro un angolo buio.
Riappropriazione: ripresa del possesso di qualcosa. Qualcosa che esisteva prima.
Prima che venisse delocalizzato in periferia.
Riassestamento. Qualcosa di grosso si era spostato, aveva traslocato
si era trasferito lontano. Andava recuperato.
Quanto grande? Quanto lontano?
Grande come tutte le parole che sono servite e ancora servono
fino a che non ne servirà più nessuna.
Lontano dalle luci architettate, come ogni periferia che si rispetti.
Sono così belle le parole, salvifiche, caotiche stelle.
Lesbica. Brutta parola, fastidiosa, si dice.
Lesbica mi fa impazzire, l’ho scelta con attenzione.
L’ho pescata, l’ho sciacquata appena, me la sono mangiata viva e cruda.
Resa: azione, cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico.
Riposizionamento. Riappropriazione della resa come stile di vita:
arrendersi a tutte le vite possibili
ottime nemiche, invincibili.
Come buttare la testa sotto l’acqua, aprire gli occhi
(sabbia, sale che gratta, bruciore)
guardare la propria mano muoversi.
Decentramento mon amour.
Apologia della lateralità.
Fuga dalla gentrificazione.
Elogio di tutte le periferie dentro ognuna di noi.
(Ma quella cosa della testa sott’acqua non l’ho mai fatta, eh, è solo una metafora. Quella cosa sì che mi fa paura. Non è che perché una è nata al mare poi sa fare tutto quello che c’entra col mare…)
pubblicato sul numero 23 della Falla – marzo 2017
immagine realizzata da Mara Santinello del collettivo Gli Infanti
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