di Carmen Cucci
Oh San Severo
la città del mio pensiero
dove prospera la vite
e l’inverno è alquanto mite.
Andrea Pazienza, Sturiellet
Vivere a Bologna senza conoscere Pazienza è un po’ come visitare Parigi senza aver letto Cortázar: passabile, ma ci perdi un po’ di magia. Non sapere poi che la stessa città che ha dato i natali ad Andrea li ha conferiti anche a Luca Sardella, al Gabibbo e alla sottoscritta salva spazio nel cervello da riservare ad altre informazioni di dubbia utilità. Ma allo stesso tempo priva della possibilità di condurre un’indagine accurata sul luogo che ha visto l’avvicendarsi di personalità così affascinati e poliedricamente differenti tra di loro (me esclusa). Nel cuore di quella che dovrebbe chiamarsi Moldaunia da almeno vent’anni, San Severo è una (st)ridente cittadina in provincia di Foggia, sì Puglia ma non Salento, dicasi Capitanata.
Cinquantatremila abitanti, cane più cane meno, parzialmente pervenuta al servizio di trasporti nazionale, accoglie calorosamente con promesse d’olii e vini di qualità, tacendo tuttavia di piazze di spaccio e sporadiche sparatorie che pure le donerebbero una nota di colore, rendendola appetibile ad una fascia di turismo creepy ma per lo meno esistente. Sebbene Federico di Hohenstaufen l’avesse designata come eventuale patria divina, credo che a oggi l’opinione di un omosessuale risulti alquanto differente: provincialmente provinciale, dato che il meglio è già emigrato o lo farà presto. Se il calcio o la danza non rientrano nei tuoi interessi, da questi ultimi potresti escludere anche la speranza di incontrare qualcuno con cui condividere il dolce suono di un ‘frocio di m****’ gridato da un marciapiede dall’altro lato della strada. Patria indiscussa del Pan Drion, celebre prodotto della pasticceria locale, dolce fragrante e gustoso celebrato da Ernesto Mandes con ottonari a rima baciata “Burro fino, cioccolato; / uova fresche di giornata; / fior purissimo di grano / del ferace dauno piano”, soprattutto nel periodo natalizio San Severo offre una vasta gamma di specialità tipiche con cui strafogarsi mentre nonna racconta del pasticcere scappato col parrucchiere (o viceversa) e mamma domanda per l’ennesima volta quando le presenterai quella figura mitologica altresì nota come fidanzatino.
Un pasticcio di tacchino, pane abbrustolito, caciocavallo e mozzarella meglio conosciuto come zuppetta durante il pranzo del 25, capitone e baccalà a Capodanno, mennl trret (mandorle atterrate o “attorrate”) al cioccolato, o cartellate nei momenti di pausa. Dopo quindici giorni il girovita potrebbe risentirne, ma in compenso sarete riusciti ad aggirare qualsiasi tipo di domanda scomoda con la scusa plausibilissima dell’avere la bocca piena. Ambiente claustrofobico a parte, tornare a casa, anche se con parsimonia, diventa una necessità dell’anima col passare del tempo: anche Pazienza lo sapeva quando disse “se mi dovesse succedere qualcosa, voglio solo un po’ di terra a San Severo, e un albero sopra” e, nonostante tutto, non posso che dargli ragione.
pubblicato sul numero 21 della Falla, gennaio 2016
immagine realizzata da Mara Santinello del collettivo artistico Gli infanti
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