Complice la morte di Joseph Ratzinger, ci siamo sorbite un’ubriacatura di clericalismo mediatico ricca di forzature e anacronismi, tra questi, una delle tesi più gettonate recita all’incirca: «Benedetto XVI, abdicando, è riuscito a dare valore all’assenza e la massiccia partecipazione dei fedeli alle esequie testimonia l’impresa unica in cui è riuscito quest’uomo: farsi amare senza esserci». Corre l’obbligo di ricordare che Mina si è ritirata dalle scene nel 1978 e, ancora oggi, pendiamo dalle sue labbra a ogni nuovo disco, singolo o jingle pubblicato; seguendo il ragionamento sulla fidelizzazione in absentia, Mina vale almeno 4 papi emeriti e mezzo. Mancano le basi, alle basi bisogna tornare e quale miglior fondamento se non il caravanserraglio massmediale noto come Festival di Sanremo?

Questa sera prende il via, infatti, il festival della canzone italiana, ormai giunto alla sua 73esima edizione, un evento che le semiologhe più esperte non esiterebbero a definire come il testo seminale della cultura popolare televisiva propria delle genti che si affacciano sulle coste del Mar Adriatico

Amadeus, conduttore e direttore artistico per il quarto anno consecutivo, sfumata l’ipotesi di riavere proprio Mina sul palco dell’Ariston ‐ vero miracolo che gli sarebbe valso quantomeno un processo di beatificazione ‐, ha confezionato una kermesse che strizza l’occhio a un target ben preciso: la Generazione Y, ovvero le persone nate tra il 1981 e il 1996. Lo possiamo definire un festival per Millennial grazie a un cast la cui alchimia impatta in maniera non indifferente su chi è stato preadolescente, adolescente o postadolescente negli anni 2000, epifanie che guardano al passato ma che trasfigurano il presente. Così, artiste suggello di qualità Dop come Giorgia e Anna Oxa, assumono quel ruolo di navigate signore della musica italiana che, per la generazione precedente, era appartenuto a Giuni Russo o Antonella Ruggiero; gli Articolo 31 sublimano la proustiana madeleine di un’epoca in cui il mondo era ancora diviso tra punk e gabber e Gianluca Grignani si impone quale memento mori, ammiccandoci da una copertina di Cioè del 1995. In questa lezione di trasfigurazione 2.0, anche coloro che vengono considerati gli astri più fulgidi dell’attuale panorama discografico subiscono un mutamento antropologico all’occhio di noi Millennial: profili come quelli di Elodie, Marco Mengoni o Mara Sattei hanno vissuto insieme a noi l’età dell’oro dei talent e abbiamo instaurato con loro legami degni di ogni buon testo di psicodinamica delle relazioni oggettuali; guardiamo queste artiste con lo sguardo bonario e indulgente solitamente riservato alla zia eccentrica che ritroviamo ai pranzi di Natale, ma di cui dimentichiamo l’esistenza durante il resto dell’anno.

Un capitolo a parte va dedicato al vero e proprio colpaccio dell’Amadeus Quater: la reunion di Paola e Chiara, attesa per un decennio dalla popolazione LGBTQ+, in particolare dal sottobosco gay. Per mesi le sorelle Iezzi hanno lasciato per noi molliche di pane lungo il cammino: un primo video a luglio che ha fatto il giro del web, le apparizioni quasi mariane nei concerti estivi di Max Pezzali e Jovanotti, lo scatto rubato in studio di registrazione. All’annuncio della loro presenza in gara al Festivàl, quindi, si è scatenata una sorta di folie à deux come non se ne vedeva dai tempi delle stimmate di Padre Pio. Questo fenomeno così bizzarro ‐ in cui una specie di scossa elettrica corre da epidermide a epidermide, accompagnata da stati di eccitazione, tachicardia, invio compulsivo di messaggi e fenomeni di gaio tarantismo ‐ fa il paio con un altro grande ritorno sulle scene pop, quello di Ambra Angiolini, di nuovo cantante con T’appartengo sul palco di X-Factor. Per chiarire il concetto: dopo quell’esibizione dall’afflato epico, il singolo made in Non è la Rai è tornato in vetta alle classifiche dopo ventotto anni dal suo rilascio e il video della performance ha totalizzato, in un mese, 2,8 milioni di visualizzazioni. Per come la vedo io, siamo di fronte a due fenomeni dalla radice comune: l’esondazione irresistibile degli anni ‘90 del Novecento, il male di vivere con addosso un crop top, la nuova generazione perduta che ritrova se stessa in una leggerezza che è condanna, riscatto, disincanto e narcisismo.

Il cast di questo Sanremo, con le trasformazioni che produce in sé e fuori di sé, è la sintesi di un’intera dimensione generazionale, in cui l’alto e il basso travasano l’uno nell’altro traducendosi nell’inconsistenza del presente. Un Sanremo spartiacque, dove è possibile ritrovare e dire addio. Questo è un festival fatto di idoli profani che caricano su di loro il peso della transustanziazione, simulacri che riflettono immagini nuove da specchi rotti, Lari che dicono più di noi che di loro stessi. In fondo, Sanremo, quale messa collettiva trasmessa in eurovisione, forse non è altro che questo: un continuo processo a noi stesse.

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