Cercando su un motore di ricerca le immagini rappresentanti il termine infarto, troveremo quasi esclusivamente foto o disegni di corpi maschili che si stringono il petto con le mani e un’espressione di forte dolore al viso. Le rarissime donne ritratte – situate su blog dedicati al mondo femminile, per ovvie necessità di identificazione – sono anch’esse nella medesima posizione. Peccato che non sia quello che succede nella realtà, dal momento che quasi nessuna donna colta da infarto ha mai lamentato un dolore al petto. Solitamente le donne si presentano in ospedale con altri sintomi, che vengono poi definiti atipici, ed è anche per questo motivo che muoiono molte più donne per infarto e in genere per malattie cardiovascolari.

La quasi totale ignoranza delle dinamiche del corpo femminile nella medicina è un problema noto di cui oggi sappiamo gli effetti – medicinali che non funzionano, terapie che aggravano anziché curare – ma per il quale ancora non si corre ai ripari.
Le donne sono quasi sempre escluse dai test scientifici sulle patologie e da quelli nelle sperimentazione di farmaci e, anche quando sono incluse, è piuttosto raro che vengano diffusi i dati disaggregati, benché sia chiaro ormai da diversi decenni che le differenze biologiche tra i due corpi siano determinanti nella risposta alle terapie e nei rischi che si corrono.

Accade anche laddove una malattia colpisce più frequentemente donne che uomini o quando esse riportano effetti diversi o più gravi: nonostante il 50% degli adulti sieropositivi nei Paesi in via di sviluppo sia donna, ad esempio, i farmaci antiretrovirali vengono testati sugli uomini, gli studi americani sulle terapie includono un campione di donne solo dell’11%; le donne hanno il 70% di probabilità in più di soffrire di depressione, eppure gli studi sulle patologie cerebrali vengono fatti esclusivamente su uomini in cinque casi su sei, mentre i farmaci antidepressivi vengono prescritti basandosi sul corpo maschile e causando così uno squilibrio ormonale nelle donne. E ancora: la maggior parte dei pacemaker non funzionano sulle donne perché hanno frequenze cardiache diverse e, quando venne immesso sul mercato un pacemaker rivoluzionario, risultò troppo grande per essere impiantato nelle donne.

Differenze di genere a sfavore dell’universo femminile e Afab1 le abbiamo in tutto il vasto campo della medicina: dai farmaci per la pressione alle terapie contro il diabete, dai farmaci quotidiani come Tachipirina e Aspirina fino a toccare le diagnosi di sindromi in cui sono le caratteristiche sociali, più che quelle biologiche, a manifestarsi diversamente nei due generi – esempio più eclatante è la diagnosi di autismo, che finora sembrava una prerogativa quasi maschile. 

L’origine di questa disparità possiamo farla risalire agli albori della ricerca scientifica, fortemente affetta da pregiudizi sessisti: da quando Aristotele sostenne che la donna fosse nient’altro che un maschio mutilato, la convinzione che il corpo femminile sia soltanto una versione ridotta di quello maschile si è protratta per millenni, stabilendo un’ipotetica norma maschile in ogni esperimento che, di conseguenza, ha trasformato i sintomi e gli effetti femminili in anomalie, ovvero in semplici risultati atipici che non è importante studiare in quanto accadono solo ogni tanto (cioè accadono nelle rare volte in cui vengono incluse le donne negli esperimenti).

Bernardine Healy

Oggi, nonostante la necessità di una medicina di genere sia evidente già da diverso tempo – la prima a evidenziare la mancanza di dati fu la cardiologa Bernardine Healy nel 1991 -, solo in pochi Paesi vige l’obbligo di inserire le donne nei panel degli esperimenti. Ma anche dove questo obbligo c’è, spesso le industrie farmaceutiche trovano scappatoie burocratiche per evitare di farlo, con la giustificazione che i test sulle donne impiegano più risorse in quanto il sesso biologico femminile – con la sua variabilità ormonale data dal ciclo mestruale – cambia nel corso del mese e nel corso della vita.

È evidente che le donne non siano abbastanza interessanti da giustificare qualche test in più, neanche quando potrebbe essere utile per salvare loro la vita e quella dei/delle loro figli e figlie, visto che per quanto riguarda le donne in gravidanza ci sono ancora meno dati.

È però anche molto curioso come recentemente i governi di tanti Paesi si siano all’improvviso interessati alle donne incinte. La sperimentazione del vaccino anti Sars-Cov-2 inizialmente non è stata fatta su nessuna donna in gravidanza e fino a soli 4 mesi fa2, in Italia si dichiarava che contrarre la Covid-19 in gravidanza non fosse più probabile e non avesse effetti peggiori che in altri soggetti. Ora invece3 sembra che il rischio di avere complicazioni sia così più alto in gravidanza che alcuni ginecologi hanno richiesto al Ministero della Salute di inserire le donne incinte tra le categorie fragili, accelerando così l’impennata di vaccinazioni anche su di loro.

Non sarà per caso che qualche medico (declinazione maschile non casuale) abbia visto allontanarsi nel tempo la riuscita della campagna vaccinale, scegliendo di lasciare prive di vaccino tutte le donne in gravidanza?

[1] Assigned Female At Birth, acronimo che indica le persone assegnate femmine alla nascita.

[2] http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=91370

https://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5415&area=nuovoCoronavirus&menu=vuoto

[3] https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=95228

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