La vivibilità dei pride nell’Europa di oggi

di Elisa Manici

Il destino delle attiviste LGBTQI, come quello degli esseri umani in generale, è molto vario: c’è chi deve convincere gay ancora in the closet (o quasi), che andare a un Pride ha senso, è cosa buona e giusta, e soprattutto non è una baracconata fine a se stessa. E c’è chi deve organizzare Pride non autorizzati, come l’anno scorso quello di Istanbul, oppure espressamente vietati, come quello moscovita sempre nel 2016, senza andare troppo lontano geograficamente o temporalmente.

Nella vecchia Europa, che si fregia ancor oggi dei suoi antichi fasti eurocentrici di “culla della civiltà”, ci sono enormi differenze nella situazione Lgbtqi da Paese a Paese, che si rispecchiano nella vivibilità dei Pride. Ogni anno Ilga Europe pubblica una classifica sullo stato dei diritti delle persone non eterosessuali. Non a caso, data l’idea che dell’omosessualità avevano i regimi di influenza sovietica, una “degenerazione borghese”, sono i Paesi dell’Est a passarsela peggio, soprattutto quelli al di fuori dell’Unione europea. L’Italia, non va dimenticato, tiene loro buona compagnia, piazzandosi 32° su 49, nonostante l’approvazione della legge Cirinnà e la libertà di espressione. Peggio di noi, tra i 28, soltanto la Polonia, 37°, la Lituania e la Lettonia, rispettivamente 39° e 40°.

Miko Czerwinski, negli ultimi 5 anni tra gli organizzatori del Pride di Cracovia, racconta: “Quest’anno al corteo c’erano 2500 persone, l’anno scorso poco più di 1000. Ogni anno c’è una contro-manifestazione dei neonazisti, anche se ce ne sono sempre meno. Certo – continua – tentano ancora di bloccare il nostro corteo, e le autorità cittadine non fanno niente per proteggerci. Hanno smesso da poco di essere violenti fisicamente, ma sui loro cartelli utilizzano l’hate speech, non punito dalla legge”. Lituania, Lettonia ed Estonia organizzano ogni anno il Baltic Pride, che a rotazione si svolge non solo a Tallinn, dove la situazione è più facile, ma anche a Vilnus e Riga. Soltanto pochi anni fa, nel 2010, l’edizione di Vilnius ebbe un sapore di pericolo ed eroismo: un migliaio scarso di partecipanti, sotto l’egida di Ilga e Amnesty International, la zona della sfilata circoscritta, molta polizia a proteggere i dimostranti da integralisti cattolici, neonazisti, parlamentari di destra, tutti urlanti al di là delle barricate. Ricordo di essermi truccata con particolare cura per l’occasione, mentre mi risuonava nella mente la frase che chiudeva la performance di una modella di Miss Alternative 2007: “Muori bella!”. La situazione, come ha confermato Yuri Michieletti, che proprio a Vilnius ha svolto il servizio civile europeo, lavorando per la National Organization for LGBT* Rights, è cambiata in meglio nel giro di pochi anni, e oggi il clima di serenità che si respira è ben diverso.

L’Estonia, come ribadisce Brigitta Davidjants della Estonian Lgbt association, è in una situazione dorata, rispetto a molti altri Paesi ex Unione Sovietica: “Ci sono le unioni civili e la stepchild adoption, negli ultimi 10 anni non ci sono stati atti di violenza fisica durante i Pride, l’atteggiamento della società civile è positivo”.

Ci sono poi casi di Paesi che sulla carta hanno un ranking migliore di quello italiano, ma dove, in pratica, lo svolgimento dei Pride non è affatto sereno. È il caso dell’Ungheria, 19°; Andrea Giuliano, attivista italiano che vive a Budapest e che è stato pestato e minacciato dai neonazisti, afferma: “L’omofobia istituzionalizzata è sempre stata forte in ogni ambito. In particolare dal 2007, la rinascita dei partiti di estrema destra ha portato i Pride di Budapest a essere organizzati tra barricate, scorte della polizia e accerchiamenti. Questo, per qualche anno, ha ridotto di molto la partecipazione, ma ci siamo ripresi. Il nostro record è il 2015 con 20mila presenze”.

Nonostante la crisi antieuropeista che affligge diversi Paesi europei, ci auguriamo che il lavoro di questi attivisti coraggiosi continui a creare un fiume carsico arcobaleno che un giorno finalmente possa esplodere in superficie, travolgendo i rigurgiti neonazisti e le destre integraliste al suo passaggio.

pubblicato sul numero 26 della Falla – giugno 2017