“Prof, ma lei è gay?”. In genere la domanda non arriva mai così diretta e questo ti dà modo di dribblare le loro curiosità giocando la parte del riservato. A volte però quei ficcanaso ti prendono alla sprovvista. “Prof. ma a lei piace la prof. Nannini? Ieri vi abbiamo visto parlare giù al bar”. In effetti tu e la Nannini al bar stavate commentando i glutei del supplente di Educazione Fisica, ma adesso rispondi con un più prudente, quanto perentorio: “io e la Nannini siamo solo amici”. La risposta dovrà sembrare abbastanza evasiva da tessere quel velo di mistero che, occasionalmente rattoppato, ti coprirà fino a fine anno.
Ogni tanto però ti incalza un dubbio. E se rispondessi tranquillamente che “sono gay”? Ti confronti con qualche amico e quasi tutti ti invitano alla prudenza: “perché devi dirglielo? Non è necessario! In fondo è un fatto tuo, privato!”. Ma è davvero un fatto privato? Privato è quello che fai il sabato sera sotto le tue lenzuola a fiori, non chi sei e come sei.
Comunque devi pensarci bene prima di vuotare il sacco, perché poi ci sono anche i genitori. Ad esempio c’è la madre di Immacolata Romagnoli, prima B, che fa la catechista in parrocchia e forse ti ha già puntato da un po’. Magari si è accorta che tra un’ora di Italiano e una di Storia insegni anche rudimenti di quella che lei chiamerebbe “teoria gender” e non aspetta altro che un tuo passo falso per scatenare l’inferno nell’assemblea dei genitori. Non dichiararti ti permette di affrontare certi temi senza allarmare nessuno, assumendo la posizione privilegiata dell’etero liberale. D’altra parte come non parlare dell’omocausto quando si affronta il nazifascismo? Come sorvolare sulla bisessualità dei greci, leggendo l’episodio di Achille e Patroclo nell’Iliade?
Sei dichiarato con tutti, ma quando entri a scuola regredisci e ti poni domande che non ti ponevi da anni. E se non mi accettano? Se poi mi tocca subire tutti i giorni le vessazioni di un branco di scemi? Se poi devo difendermi dai genitori? Sono domande legittime, tanto più se ti trovi a lavorare nelle periferie della provincia o in scuole religiose, dove la questione può porsi addirittura come una scelta tra lavoro e disoccupazione (e lì la libertà devi potertela permettere anche economicamente).
Indossare una maschera è sempre pesante, ma quando lavori a scuola ti domandi anche se questa recita non sia un venir meno al tuo stesso compito educativo, che è quello di formare cittadini in grado di interpretare e affrontare la realtà della vita vera, multiforme e complessa. E allora ti viene il sospetto che edulcorando la realtà che tu stesso rappresenti, per renderla più rassicurante agli occhi degli studenti e delle loro famiglie, più conforme alle aspettative, forse non stai facendo il tuo lavoro come dovresti. Questo ti fa sentire in colpa anche con la tua comunità. Per quanto provi a dirti che in fondo non ti fingi etero, che ometti soltanto di essere gay, non riesci a non sentirti in contraddizione: perché allora che senso ha la bandiera arcobaleno appesa sul letto se l’orgoglio lo rispolveri solo per il Pride?
Che la nostra identità sessuale possa essere usata come un’arma per ferirci è vero solo nella misura in cui noi stessi la consideriamo un punto debole. E allora forse faremmo bene a ispirarci a quella scena di Laurence Anyways (Xavier Dolan, 2012) in cui un professore di Letteratura, nella Montréal degli anni ‘80, decide, fra mille paure, di andare a scuola in un abbigliamento che rispecchi chi è veramente: tacchi e tailleur. Il suo arrivo in classe fa calare il gelo tra i banchi; gli studenti attoniti fissano pietrificati l’insegnante, che a sua volta tace, immobile e incapace di qualsiasi iniziativa, finché una ragazza alza la mano per porre una domanda che neanche l’insegnante aveva previsto: “a proposito di pagina 8, paragrafo 3, può rispiegare quello che abbiamo letto ieri?”.
La scuola è ricominciata e molti di noi tra poco saranno al solito bivio. “Prof. ma lei ce l’ha la ragazza?” Ci sono due strade: rimaniamo vittime di un sistema eteronormativo o spiazziamo il sistema creando… una falla?
pubblicato sul numero 18 della Falla – ottobre 2016
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