COME SUPERARE IL MASCHILE SOVRAESTESO NELLA LINGUA ITALIANA
Tra i problemi di cui mi occupo c’è quello dei cosiddetti nomina agentis, cioè i nomi professionali, declinati al femminile (ministra, assessora, ecc.). Nell’ambito delle questioni di genere, una discussione correlata riguarda il modo di rivolgersi a una moltitudine mista; la norma dell’italiano prevede che, anche in presenza di un solo maschio, si adotti il maschile sovraesteso (da non confondere con il neutro, che in italiano non esiste come genere a sé stante).
Già Alma Sabatini, nelle sue Raccomandazioni (1987), consigliava di usare, ove ci fosse prevalenza femminile, il femminile sovraesteso, ma tale consuetudine non si è mai diffusa in modo massiccio. Nel corso del tempo, parallelamente all’aumento dell’attenzione nei confronti delle istanze queer, si è iniziato a ragionare sulla necessità di superare in qualche modo il binarismo linguistico, dato che esistono persone che non si identificano né con il maschile né con il femminile.
Questo discorso non è stato accolto in maniera unanimemente positiva da tutti gli ambienti femministi, perché ad alcuni è sembrato che ragionare su una forma neutra sottintendesse la volontà di cancellare il femminile; ma come argomenta Jennifer Guerra nel suo libro Il corpo elettrico (Tlon),
«Per un certo periodo è sembrato che le teorie queer volessero cancellare ogni differenza fra i generi e negare la differenza sessuale tout court. Ma non è così. Innanzitutto, non dobbiamo pensare alle teorie queer come a una sostituzione del femminismo o a una sua deriva.
Le persone queer sono sempre esistite […]. Inoltre, i queer studies non suggeriscono affatto la distruzione o l’appiattimento del genere, ma la distruzione o, ancora meglio, la decostruzione delle norme di genere. Le stesse norme di genere che anche i femminismi si prefiggono di abbattere. Allora più che della sola identità, possiamo cominciare a parlare delle identità, più che di differenza possiamo cominciare a parlare delle differenze.».
Il dibattito si è acuito recentemente in seguito alla condivisione social di una nota inserita all’inizio del libro di Valentine Wolf Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali (Eris Edizioni), in cui l’autrice fa una scelta particolare, che decide, giustamente, di chiosare:
«Nota: in questo libro si è scelto di non usare il maschile generalizzato previsto dalla norma grammaticale italiana in quanto espressione di un uso sessista della lingua. L’uso dell’asterisco al posto del suffisso finale di una parola permette di superare la dicotomia di genere femminile/maschile e usare una forma neutra, in un’ottica di inclusività. In un caso si troverà anche l’uso del suffisso non binario “u”».
L’autrice è un’attivista e il libro tratta di una questione molto specifica: non si tratta di un testo rivolto a un pubblico generico. La nota, condivisa inizialmente – e con un giudizio favorevole rispetto alla scelta dell’autrice – il 17 luglio dalla linguista e studiosa delle questioni di genere Manuela Manera, inizia a girare, per lo più in forma decontestualizzata rispetto all’intento del post iniziale, privata dei suoi crediti, dando adito a commenti talora irripetibili. Pubblica la foto, sempre senza crediti, anche Diego Fusaro (nel suo post del 21 luglio si legge: «Le nuove rivoluzioni ortografiche. Quelle che davvero fanno male ai padroni e ai loro interessi»).
Pochi giorni dopo, la casa editrice EffeQu, per la quale ho pubblicato, nella collana Saggi pop, un saggio intitolato Femminili singolari, annuncia di avere adottato una mia proposta inizialmente giocosa (che ho solo contribuito a divulgare, dato che esisteva già) di usare, per i plurali ambigeneri, lo schwa invece dell’asterisco, che pone un oggettivo problema di pronuncia. Lo spunto è un saggio sul femminismo dell’autrice brasiliana Marcia Tiburi, Il contrario della solitudine (trad. di Eloisa Del Giudice). Nel caso del saggio di Tiburi, la scelta di EffeQu serve per tradurre una forma terza usata dall’autrice nella sua lingua, ossia todes invece di todos e todas. L’idea di usare lo schwa, dunque, nasce in maniera ponderata per non cancellare, nella traduzione, la soluzione linguistica militante di Tiburi.
Credo sia rilevante ribadire che in entrambi i casi abbiamo a che fare con testi nei quali la questione di genere è centrale alla trattazione. Questo aspetto è importante, perché è evidente che al momento – e forse anche per un tempo indefinitamente lungo – queste istanze saranno trattate solo in determinati testi e in determinati contesti. Nessuno sta puntando a cambiare la lingua italiana in blocco. Comunque, poiché ritengo rilevante che si discuta di queste questioni, vi ho accennato anche durante un mio intervento il 23 luglio a Prendiamola con filosofia, serata organizzata a Roma da Tlon.
Il 25 luglio viene pubblicato, sul quotidiano La Stampa, un breve elzeviro a firma di Mattia Feltri (qui il testo integrale).
Il pezzo, che contiene diverse imprecisioni (compreso il riferimento a una fantomatica accademica della Crusca: ce ne sono cinque, attive su Facebook, e nessuna di loro ha scritto nulla, pubblicamente, sullo schwa), mi spinge a una replica su Facebook. E la discussione continua, con interventi più o meno centrati.
Ho riportato l’intera vicenda degli ultimi giorni per contestualizzare questo articolo. La discussione riguardo a forme linguistiche che vadano oltre il binarismo appare sovente viziata da preconcetti, scarse conoscenze e – perché no? – anche paure, come se fosse in corso un piano per sovvertire le regole dell’italiano as we know it.
L’italiano è una lingua con genere grammaticale (nella quale, dunque, i sostantivi non possono che avere genere maschile o femminile); questo ha portato da anni a tentativi per trovare delle forme neutre nei contesti in cui si presta particolare attenzione al genere, in cui l’asterisco circola da anni; tuttavia, non c’è mai stata una vera linea comune, tanto è vero che sono state adottate molte soluzioni.
Eccone una lista, compilata grazie ai miei contatti su Facebook:
– Il tradizionale maschile sovraesteso: Cari tutti, siamo qui riuniti…
– La doppia forma: Care tutte e cari tutti, siamo qui riunite e riuniti…
– La circonlocuzione: Care persone qui riunite…
– Il femminile sovraesteso: Care tutte, siamo qui riunite…
– L’omissione dell’ultima lettera: Car tutt, siamo qui riunit…
– Il trattino basso: Car_ tutt_, siamo qui riunit_…
– L’asterisco: car* tutt*, siamo qui riunit*…
– L’apostrofo: Car’ tutt’, siamo qui riunit’…
– La chiocciola: car@ tutt@, siamo qui riunit@…
– Lo schwa: Carə tuttə, siamo qui riunitə…
– La u: Caru tuttu, siamo qui riunitu…
– La x: Carx tuttx, siamo qui riunitx…
– La y: Cary tutty, siamo qui riunity…
– L’inserimento di entrambe le desinenze: Carei tuttei, siamo qui riunitei…
– Entrambe le desinenze divise dal punto: Care.i tutte.i, siamo qui riunite.i…
– Le desinenze divise con la barra: Care/i tutte/i, siamo qui riunite/i…
Quattro gruppi di soluzioni, dunque, ognuna con i propri pregi e i propri limiti. Ho una preferenza per lo schwa perché questo simbolo, che appartiene all’alfabeto fonetico internazionale o IPA, International Phonetic Alphabet, rappresenta la vocale media per eccellenza: quella che possiamo pronunciare senza deformare in alcun modo la bocca (laddove A-E-I-O-U richiedono di fare… delle smorfie). Per chi non ne avesse chiaro il suono (che però è naturalmente presente in molti dialetti del Meridione), è una specie di forma intermedia tra A ed E. Per questa sua caratteristica, mi pare particolarmente adatto per il ruolo di identificatore del mix di generi maschile e femminile o di una moltitudine mista. Il vantaggio è che, al contrario di altri simboli non alfabetici, ha un suono (e un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile). Il problema principale è che il simbolo non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer; personalmente, o lo recupero dalla mappa caratteri oppure lo cerco e copio da Google. Per chi volesse approfondire la questione, esiste un intero sito, Italiano inclusivo, dedicato proprio a incoraggiare l’uso di questo segno.
Ritengo che sia socialmente e culturalmente rilevante l’esistenza di una discussione in merito alla questione. Tutto questo va letto, a mio avviso, come un arricchimento dell’italiano, non come un attacco alla sua tradizione (anche perché, nel caso, si tratta di aggiungere qualcosa alla nostra lingua, non di sostituire). Sono d’accordo con Francesco Quatraro, una delle due teste che compongono EffeQu assieme a Silvia Costantino, quando scrive in un post su FB:
«Per me la lingua è molto, praticamente tutto. Di questo tutto qui richiamo tre aspetti che trovo pertinenti: la fantasia, la norma e l’attenzione. Se non abbiamo una norma in grado di designare entrambi i generi non dico di inventarcela, ma almeno di cominciare a immaginarcela, a lavorarci su. Questo è uno dei compiti editoriali: fare una proposta, tracciare una (propria) norma, diffonderne le possibilità. E sia chiaro: ribadisco che il detto tentativo della nostra casa editrice lo considero del tutto provvisorio, anche perché manca ancora della fluidità e della precisione che solo il tempo e l’uso possono fornire. Inoltre, ognuno può, e sa, usare la norma che vuole – basta che ne sia consapevole. Però una cosa è importante: l’attenzione. […] Questo è uno dei punti di partenza per riflettere e far vivere una lingua, che alla fine dovrà essere sufficientemente ampia ed elastica per descrivere un altrettanto ampio ed elastico stato di cose: prestare attenzione al singolo, per evitare dunque di generalizzare (perché lo sappiamo, così nascono sdruciti stereotipi), e per riuscire a essere inclusivə. Tutto il corollario ideologico (che c’è perché la lingua FA ideologia) è comunque strumentale e tangenziale: qui si ragiona di possibilità, e noi come editori proviamo a preparare il campo».
Mi sento di aggiungere un’unica cosa: dobbiamo discutere, dobbiamo scontrarci, anche, ma possiamo farlo in maniera pacata, senza per forza farne una guerra. La discussione linguistica può portare molti frutti, perché più teste ragionano sicuramente meglio.
Il litigio perenne, lo sberleffo, la presa in giro dell’avversario invece portano solo a inutili polarizzazioni nelle quali, alla fine, si perde di vista l’oggetto stesso del contendere.
Immagine in evidenza da dictionary.com
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