SULLA RAPPRESENTAZIONE LINGUISTICA E I GENERI

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Tra gli strumenti che permettono all’eterocispatriarcato di sopravvivere e di riprodursi, il linguaggio è uno dei più potenti. 

Esso ha infatti la capacità non solo di nominare la realtà, ma anche di crearla. In un mondo in cui le donne e i soggetti LGBT+ sono considerati esseri umani di valore inferiore rispetto all’uomo bianco cisgender, eterosessuale e borghese, il linguaggio rappresenta esattamente questa struttura sociale. 

Oggi abbiamo ancora molto da fare per smantellare il linguaggio sessista, le sue narrazioni tossiche sul corpo e sulla vita delle donne, la sua terminologia delegittimante; in più dobbiamo lavorare per decostruire il linguaggio dell’omolesbofobia, per dare spazio a tutti quei soggetti che, come le persone non-binary o transgender, non si sentono rappresentate dal severo binarismo insito nella nostra lingua.

Di quali strumenti avvalersi per dare spazio espressivo alle soggettività che non hanno finora avuto voce? 

Come rappresentare, almeno in italiano, non solo le donne ma chi rivendica una sessualità altra e un genere non binario? Ecco le strategie più conosciute.

In Italia, l’utilizzo dell’asterisco al posto della vocale finale ha fatto molto discutere: da una parte, l’asterisco piace poco alle femministe differenzialiste che tengono all’espressione anche grafica del femminile e a quello che politicamente essa rappresenta; dall’altra, è un valido strumento nel linguaggio scritto, ma non ha trovato, per ora, un suo corrispettivo orale che possa essere pronunciato. 

Un’altra obiezione ha a che fare con la supposta artificialità di questi prodotti. L’uso dell’asterisco e di determinati termini al femminile (sindaca, ministra etc…) viene percepito come una costruzione a tavolino, qualcosa di estraneo e imposto a chi, quella lingua, la parla abitualmente. 

Il problema si ripresenta con strumenti affini, quali il simbolo della chiocciola, importato dalla Spagna assieme alla -x.

Altri simboli sono stati proposti come soluzioni per esprimere un terzo genere, capace di comprendere un range di identità diverse. Sempre in Italiano, ha fatto discutere l’uso della desinenza -u, come in tutte, tutti e tuttu. Anche questa soluzione, che può essere scritta e pronunciata, sembra non accontentare i più scettici. Diversi collettivi si stanno muovendo verso una posizione più tranchant: il troncamento, l’elisione completa del suffisso maschile o femminile. 

Per quanto riguarda la rappresentazione delle persone non-binary, anche in Italia si è cominciato a copiare l’uso anglosassone del they, pronome di terza persona plurale, nella traduzione italiana “loro”. 

Benché l’uso del pronome “loro” per rivolgersi a una persona singola sia ostico, per una mera questione di abitudine, questa trovata sembra piacere a una buona parte della comunità non binaria, sebbene altr* preferiscano alternare maschile e femminile. Rimane invece una prerogativa anglofona l’uso di pronomi neutri singolari, quali Ze, Zir e Zem

Nonostante le critiche mosse ai diversi interventi linguistici proposti dai collettivi transfemministi queer e dalle soggettività interessate da questo tipo di oppressione linguistica – critiche a volte davvero sterili che mirano solo a denigrare e delegittimare un nuovo comportamento linguistico e il suo referente semantico – è necessario insistere e continuare a interrogarsi per trovare, con la fantasia, nuovi escamotages, anche solo come rivendicazione politica, collettiva o individuale. 

Esistono poi delle abitudini che vanno decisamente abbandonate: come quella del deadnaming, l’uso del nome proprio abbandonato dalla persona trans, e del misgendering, l’uso improprio dei pronomi personali scelti dall’individuo. 

A ogni modo, è necessario cercare una soluzione. 

Molte persone diranno che non è accettabile o plausibile, molti si improvviseranno sociolinguisti, puristi assoluti, paladini della lingua italiana: non fate caso a loro. «Panta rei», tutto scorre, e questo mondo di dinosauri, assieme alla sua lingua retrograda e bigotta, un giorno si estinguerà.  

Pubblicato sul numero 50 della Falla, dicembre 2019

Immagini da unbabel.com