Quando e come l’intersezionalità ha inglobato davvero il tema dell’abilismo

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Kierkegaard diceva che l’unica cosa certa è la morte. Io in trentanove anni di vita ne ho trovata un’altra: le femministe fanno incazzare la gente.

Sebbene oggi io mi consideri una fiera femminista, il mio incontro con questi movimenti è arrivato tardi, ben dopo la laurea, e non perché non ne condividessi le idee, tutt’altro, semplicemente quando ero adolescente del femminismo mi arrivava soltanto una flebile eco, molto lontana da me e dalla mia vita.

In genere la maggior parte delle persone nate negli anni ‘80 sono diventate femministe grazie a coloro che avevano intorno: genitori, insegnanti, amicizie e conoscenze, anche perché, oggi come allora, questi argomenti comparivano di rado sui media tradizionali. 

Io sono cresciuta in un contesto abbastanza lontano da questi temi, e in ogni caso negli anni ‘90 il femminismo stava cominciando da poco ad affacciarsi all’intersezionalità. Quando ero una giovine ragazza su ruote, ancora in cerca del mio posto nel mondo, tutto intorno a me puzzava di abilismo. Mi sforzavo di raggiungere il consenso e l’approvazione di qualsiasi persona non-disabile sulla faccia della Terra, anche a spese davvero onerose della mia dignità. Nella mia testa le femministe erano quelle che lottavano per il diritto all’aborto, per abolire il gender pay gap, e facevano un sacco di cose fichissime manifestando nelle piazze e facendosi ascoltare a gran voce. Le ammiravo, ma ai miei occhi erano distanti anni luce. Cosa c’entravano con me quelle lotte? Cosa c’entravo io se a diciotto anni non sapevo neanche se avrei potuto continuare a studiare o se avrei trovato qualcuno disposto ad assumermi. Come potevo pensare all’aborto se già solo la possibilità di fare sesso mi sembrava incredibile? 

Qualcuno potrebbe dire: «Beh, mia cara, ti saresti potuta informare e capire che il femminismo non è solo questo», e io risponderei: «Certo, adesso lo so, ma all’epoca informarmi significava spesso dover raggiungere luoghi inaccessibili, o spostarmi coinvolgendo persone non interessate». Sì, perché vivere in un Paese che non ha mai previsto la tua autonomia comporta spesso il dover scendere a compromessi.

Poi verso la fine degli anni ‘90, come nel finale delle migliori commedie americane, la svolta: il web entra nelle nostre vite e successivamente anche i social, allargando gli spazi senza doversi muovere da casa. 

Questo mi ha permesso di avere accesso a una miriade di informazioni che diversamente, forse, non avrei mai potuto raggiungere. A quel punto mi sono resa conto che il femminismo è molto, molto di più di quella flebile eco che arrivava alle mie orecchie, e soprattutto che ha a che fare davvero con la vita di chiunque. Ho così potuto scoprire non solo le istanze delle altre donne, ma di tutte le persone che sono sempre state al margine. 

In questi ultimi anni il movimento femminista di quarta ondata sta vivendo un momento di rinascita che fa della rete il proprio spazio di discussione e divulgazione. E qui torniamo alla premessa iniziale, ovvero che le femministe fanno incazzare, perché che siano le piazze o il web a ospitare questi movimenti, alla fine qualcuno a condannare le cosiddette nuove derive del femminismo arriva sempre. Il benaltrismo imperante con cui si continua a dire alle nuove generazioni di cosa occuparsi e come è diventato una pratica comune. Insomma, il mezzo è cambiato, ma la sostanza non così tanto: succedeva negli anni ‘70 e succede anche adesso. 

Io come al solito mi sento un pesce fuor d’acqua, perché di natura rifuggo sempre dal mare magnum di discorsi polarizzanti. Il femminismo è una pratica e come tale ci mette alla prova, sempre. 

Grazie a internet ho potuto vivere quella sorellanza che non ho mai vissuto da adolescente, fare i conti con il mio abilismo interiorizzato, ascoltare la voce di tante persone che non avrei mai potuto raggiungere e fare rete, letteralmente e metaforicamente. I social sono uno spazio in cui confrontarsi, fare autocritica, e raccontare se stessi può diventare una vera e propria forma di autodeterminazione.

Ma giacché, come dicevo, rifuggo dai discorsi polarizzanti, non vorrei cadere io stessa in questo tranello. Per quanto il web mi abbia aiutato a essere più consapevole su certi temi, non vuol dire che i social siano immuni da una gestione superficiale, proprio perché dietro gli schermi ci sono le persone.

Appoggiare certe battaglie non sempre è sinonimo di alleanza, ma può diventare semplicemente il desiderio di cavalcare un’onda. Abbiamo visto come il movimento body positive sia stato banalizzato al punto da diventare la fiera del contorsionismo pur di far uscire qualche rotolino in una foto, e allo stesso modo tanti altri movimenti che riguardano comunità oppresse sono stati sfruttati per diventati post acchiappalike.

Alla fine ciò che avviene sul web non è poi tanto diverso da ciò che accade nella vita reale, e spesso il modo di stare sui social rivela molto di chi abita quegli spazi. Glorificare le attiviste digitali con un pacchetto all inclusive non ha senso, così come demonizzarle per partito preso solo perché si è lontani dalle loro istanze, è una chiara manifestazione di privilegio su cui dovremmo tutti riflettere.

Immagine nel testo da: www.marinacuollo.com