Fa rabbia sapere che, sulla carta, il sistema scolastico italiano sia dotato di uno dei migliori protocolli al mondo in favore di alunnǝ Bes (Bisogni educativi speciali) ma che il tutto sia, il più delle volte, ignorato: spesso personale e famiglie coinvolte non conoscono l’esistenza, figuriamoci il contenuto, delle linee guida nazionali e ogni aspetto si riduce a consuetudini e accomodamenti più o meno ad personam che spesso variano – e di molto – da una realtà educativa all’altra.

È bene ricordarsi che nel 2013 è stata pubblicata la direttiva ministeriale Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica che, oltre a determinare i principi e i concetti base di inclusione e di bisogno educativo speciale, indica strategie d’intervento per ogni Bes e predispone i Cts (Centri territoriali di supporto), che rappresentano il punto di unione fra scuola e scuola, ma anche tra scuola e amministrazione. Inoltre si impegnano nella formazione del personale scolastico, dei docenti – curricolari e di sostegno – e delle famiglie, curano la gestione economica e degli ausili e stilano accordi volti a integrare fra loro i vari servizi. Proprio dal testo del Miur leggiamo: «Ogni alunno, con continuità o per determinati periodi ha diritto alla personalizzazione dell’apprendimento e può manifestare Bisogni Educativi Speciali o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta […] anche mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della comunità educante».

Bes è una definizione ombrello che accoglie in sé tre grandi famiglie, tutte presenti nelle nostre classi: alunnǝ disabili (con certificazione 104/92 per disabilità grave psichica, fisica o sensoriale), alunnǝ con disturbi evolutivi specifici (dell’apprendimento, deficit del linguaggio, delle abilità non verbali, della coordinazione motoria, disturbi dell’attenzione e dell’iperattività), alunnǝ con svantaggi socio-economici, linguistici o culturali (stranieri non alfabetizzati con difficoltà comportamentali o relazionali). È compito del Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, composto dalla dirigenza scolastica, dallǝ insegnanti curricolari e di sostegno, dal personale socio-educativo e dai genitori, determinare i casi in cui si ritiene opportuna l’adozione di una personalizzazione della didattica, con eventuali misure compensative e/o dispensative, attraverso un PDP (Piano Didattico Personalizzato) e un PEI (Piano Educativo Personalizzato) condiviso, prendendo atto delle certificazioni cliniche presenti e valutando ogni alunnǝ «nella prospettiva – sottolinea ancora il Ministero – di una presa in carico globale e inclusiva».

Inoltre, sulla guida Rcs alla normativa Bes, leggiamo che uno dei compiti del personale socio-educativo è «collaborare con gli insegnanti per la partecipazione dell’alunno a tutte le attività scolastiche e formative», ma se questo compito è ben determinato all’interno dell’edificio-scuola, diventa più nebuloso e libero a interpretazione, quando lǝ ragazzǝ in oggetto vogliono partecipare alle gite o, per centrare meglio il punto, alle uscite didattiche organizzate dalla scuola. Escludere unǝ alunnǝ sarebbe, di fatto, una sospensione, ossia un tipo di provvedimento che lo Statuto delle studentesse e degli studenti riconosce come tra i più gravi, comportando l’allontanamento dell’alunnǝ, non tanto dalla stanza-classe o dall’edificio-scuola, ma dalla comunità scolastica. Inoltre, a livello pedagogico ed educativo, verrebbero meno tutti i principi di accoglienza e integrazione dettati dal Miur. È certamente vero che il consiglio di classe può rifiutarsi di accompagnare lǝ studenti in uscita didattica, ma giustificare questa opzione con la difficoltà di gestione di alunnǝ con esigenze particolari potrebbe portare lə ragazzə ad essere additatə e colpevolizzatə dallǝ compagnǝ. La cronaca è piena di esempi simili: il personale preposto gioca a scaricabarile con lə alunnə Bes, lə compagnə si attivano nei modi più svariati per non discriminare e tuttǝ elogiano il loro buon cuore.

Vi sveliamo un segreto: anche questo è abilismo. Involontario e in buona fede, ma è abilismo. Non dovrebbero essere lǝ altrǝ studenti ad inventarsi modi perché tuttǝ partecipino alle attività scolastiche; non dovrebbero esserci docenti felicə di comunicare alle famiglie che loro figlə può andare in gita, ma solo se accompagnatə dal genitore ( anche se persino la legge quadro del 2013 caldeggia questa eventualità); non dovremmo chiederci ogni volta chi e come gestisce l’alunnǝ Bes fuori da scuola perché questa non è inclusione, è rimpallarsi le responsabilità. Non dovremmo ignorare – nel senso che, proprio, non ne conosciamo l’esistenza – sistematicamente direttive e leggi fatte apposta per non farci trovare in impasse, quando incontriamo questa necessità: gli strumenti ci sono, ma occorre consapevolezza e formazione da parte di tutti i soggetti coinvolti.

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