È esistita una Shoah delle lesbiche? In ebraico la parola “Shoah” significa “disastro”, e innegabilmente la stella nera del dis-astro ha riguardato anche noi, molto di più di quanto la vulgata storica LGBT+, soffermandosi solo sull’aspetto dei triangoli rosa, abbia potuto o voluto percepire.
Nel 2010, insieme alla scomparsa Ines Rieder e a Enza Scuderi, germanista dell’Università di Catania, ho co-curato un testo che si occupa anche, in modo accurato, della Shoah lesbica (R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista, Ombre corte). Come afferma Luisa Passerini, nella sua recensione su Il manifesto (luglio 2010), le lesbiche sono quasi sempre non rappresentate nelle commemorazioni europee dello sterminio, sebbene questa esclusione sia storicamente infondata. Faccio parte di un network di storiche lesbiche che si è battuto per avere una stele commemorativa per le lesbiche che furono internate a Ravensbrück. Richiesta per ora, fra mille cavilli e ostacoli anche agiti da parte gay, non evasa. Una zona di silenzio, di cui il non riconoscimento commemorativo è solo un corollario, circonda la storia di chi fu spesso internata per “asocialità”, categoria includente anche chi agiva la sessualità lesbica, oppure per per quella che Enza Scuderi, nel suo saggio sulle scrittrici in esilio, definisce come “commistione esplosiva fra lesbismo, impegno politico e origine ebraica”.
Osserva Daniele Salerno, in una sua recensione sul sito del Centro Trame (Centro studi su traumi e memorie collettive, Università di Bologna ), che il Paragrafo 175 – che sanciva la penalizzazione della sola omosessualità maschile nella Germania prima guglielmina e poi nazista – ha rappresentato una sorta di damnatio memoriae su quanto hanno dovuto subire le lesbiche durante il Terzo Reich: “La rimozione del soggetto lesbico nella legislazione nazista ha prodotto infatti due conseguenze: dal lato del lavoro dello storico ha prodotto la difficoltà di riconoscere e tracciare, a partire dai documenti, una storia delle lesbiche sotto i regimi nazifascisti, dato che questo soggetto, al contrario dei gay nominati come 175 (paragrafo del codice penale tedesco contro l’omosessualità maschile), giuridicamente non esisteva; dall’altro lato il sistema classificatorio giuridico e concentrazionario nazista ha modellato il sistema classificatorio della giustizia di transizione: chi non era esplicitamente nominato nei documenti e nelle forme classificatorie dei campi di concentramento (i triangoli di vario colore, tristemente noti) ha avuto difficoltà nel dopoguerra a costituirsi ed essere riconosciuto dagli stati europei come vittima dei regimi nazifascisti. Da qui i ritardi nel riconoscimento: solo nel 1987 nel parlamento di Bonn furono ascoltate delle vittime del Nazismo nella loro qualità di lesbiche.”
Quindi forse pochi e poche sanno che… “In Austria, con il paragrafo 129, vi fu una triste par condicio fra la persecuzione delle lesbiche e quella dei gay: l’articolo di Ines Rieder parla chiaramente di sessantasei casi di donne arrestate dalla Gestapo per atti lesbici. Si chiarisce anche un’altra damnatio memoriae, stavolta più sociale che archivistica, ma non certo di minore rilevanza: Rosa Jochmann, socialista internata a Ravensbrück, verrà ‘accusata’ di lesbismo da un’altra ex internata e si difenderà negando l’accusa persino in una lettera al presidente austriaco. Il tempo del silenzio storico omosessuale e lesbico dipende soprattutto da condizioni sociali e culturali che portano alla paura e alla vergogna: l’assenza di documentazione e di ricerca è spesso solo una conseguenza di un’assenza più vasta, di un’ombra posta dai soggetti stessi a difesa di sé”.
Il colore della negazione e della scomparsa è proprio quel nero del triangolo che fu dedicato dai nazisti a molte donne marginali, incluse le prostitute e le lesbiche, e fu altro marchio del loro internamento a partire dal 1942.
Del rapporto fra lesbiche ‘comuni’, triangoli neri e politiche a Ravensbrück si occupa il saggio di Marie-Jo Bonnet, che ci indica come una certa rappresentazione stigmatizzante del lesbismo, qui trasposta nella figura della julot (lesbica ‘pappona’) non fosse solo nazista, ma riguardasse in qualche misura anche le stesse detenute”.
Questo ha scritto l’ex segretaria di ArciLesbica Eva Mamini in una sua recensione al testo, unico nel panorama italiano ed europeo, che abbiamo curato e pubblicato nel 2010. Ho poco da aggiungere, se non che ci piacerebbe ristamparlo, arricchendolo di nuovi contributi. Dove c’è silenzio, anche storico, si annida la paura, ed è la paura che va sconfitta.
Foto “R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista”: ibs.it
Foto Rosa Jochmann: Biblioteca dell’Università di Vienna
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