Nessun Pride per alcun* di noi, senza la liberazione di tutt*– Marsha P. Johnson
“Quando sono arrivata allo Stonewall ero l’unica drag queen presente. Ho chiesto: ‘Credi sia un uomo o una donna?’ Non hanno risposto e sono entrata”.
Nera, donna, trans, gay, sex worker, regina del Village, modella per Andy Warhol, drag: Marsha P. Johnson ha vissuto e ha dato molto nella sua vita. Nata Malcolm a Elizabeth, New Jersey, il 24 Agosto del 1945, crebbe in una famiglia che riteneva gli omosessuali “inferiori agli animali”. All’età di 18 anni, terminati gli studi alla Edison High School nel ‘63, scappa a New York con 15 dollari e uno zaino pieno di vestiti. Dopo aver lavorato per tre anni come cameriera in un ristorante, si ritrova senza soldi e casa cominciando a lavorare come sex worker. Homeless ed emarginata, cammina lungo Cristopher Street intrattenendo a volte i clienti dello Stonewall Inn, un lezioso localino gestito dalla Mafia.
Poi il 28 Giugno del ’69 durante il riot dello Stonewall – oggi lo ricordiamo con i Pride – in prima linea insieme a Stormé DeLarverie, Sylvia Rivera, Virginia Apuozzo, Randy Wecker, Karla Jaye tante altre, Marsha faceva la storia del movimento LGBT+ urlando: “mi prendo i miei diritti”. L’anno successivo, dopo essersi unita al Gay Liberation Front, fonda la Street Transvestite Action Revolutionaries (Star), un’organizzazione il cui scopo era assistere e tutelare le donne trans e le sex workers senza fissa dimora che vivevano nella città, diventando così una della più importanti figure politiche del movimento di quegli anni.
“Voglio che i diritti vengano riconosciuti ai gay e specialmente alla donne […] finché la mia gente non avrà ottenuti tutti i diritti in questo Paese non possiamo festeggiare. Ecco perché ho continuato a manifestare…”
Nel 1973, la sua vena reazionaria, comincia a provocarle numerose inimicizie, interne allo stesso movimento, culminate nel divieto da parte degli organizzatori sia a lei che a Sylvia Rivera di partecipare alla parata. L’impegno politico di Marsha P. Johnson però non si arresta e agli inizi degli anni ’80 si unisce ad Act Up, storico movimento di azione contro la pandemia di Aids, partecipando a campagne di sensibilizzazione e proteste, costatele numerosi arresti.
“Ci chiediamo quando la Mafia verrà ad ucciderci”.
Nel Giugno del 1992, Randy Wecker, coinquilino di Marsha, comincia una campagna di sensibilizzazione per sottrarre l’organizzazione del Pride cittadino all’Heritage of Pride sostenendo che al suo interno ci fossero membri strettamente collegati alla Mafia come Ed Murphy, ex buttafuori dello Stonewall.
Il 6 Luglio 1992, alle ore 17.33. Marsha P.Johnson viene ritrovata morta, ripescata dal molo che si affaccia in Christopher Street nel Greenwich Village di New York. Il giorno dopo, sul molo ci sono delle bottiglie disposte a formare una sagoma, intervallate da mazzi di fiori e biglietti. Un gruppo di persone, in rivolta, urla e chiede giustizia per l’ennesimo crimine lesbo-omo-transfobico. 1300 per l’esattezza, solo in quell’anno, di cui tra il 12 e il 18% dalla polizia. La stessa polizia che, poco distante dall’improvvisato memoriale, osserva la scena in tenuta antisommossa, perché in quella zona della Grande Mela non si sa mai cosa può accadere. La stessa polizia che il giorno prima aveva velocemente archiviato il caso con: Suicidio. Morte immediata, causa annegamento.
Marsha viene dimenticata e il suo impegno politico per il movimento LGBT+ spesso taciuto. In occasione del ventesimo e del venticinquesimo anniversario della sua morte sono stati pubblicati alcuni documentari sulla sua figura, riportando alta l’attenzione sulla storia di una delle fondatrici della comunità LGBT+ occidentale. L’emblema di ciò che per noi è importante rivendicare oggi.
Perseguitaci