INTERVISTA A ELENA MONICELLI, COORDINATRICE DELLA SCUOLA DI PACE DI MONTE SOLE

Con l’avvicinarsi del 25 aprile di quest’anno, la seconda ricorrenza della Giornata della Liberazione passata in pandemia, abbiamo deciso di intervistare la coordinatrice della Scuola di Pace di Monte Sole, Elena Monicelli.

Raccontaci qualcosa sulla Scuola di Pace di Monte Sole.

La sua fondazione nasce nel 2002 come risultato di un percorso partito dal basso, con una serie di azioni della società civile. Verso la fine degli anni novanta era andata consolidandosi l’idea che lavorare direttamente sui luoghi di memorie tragiche potesse aiutare l’educazione di una cittadinanza consapevole e attiva. Poi le iniziative incontrarono le istituzioni e nacque la fondazione. Tra i soci fondatori c’è la partecipazione del Land tedesco Assia (gemellato con l’Emilia Romagna dal 1992) che siede tuttora nel Cda apportando un certo tipo di visione: l’attenzione al contesto internazionale e soprattutto a un lavoro basato sul riconoscimento dell’altrə e la riconciliazione. Dal 2002 offriamo attività educative rivolte a varie fasce d’età (a partire dai 5 anni) e incentrate su due filoni: crescita della persona nel contesto sociale ed educazione alla memoria per una cittadinanza consapevole. 

La storia di Monte Sole è centrale, anche se il racconto diretto viene fatto solo a partire da fasce d’età più alte (dopo gli 11 anni circa); prima le attività riguardano la cooperazione, la comprensione dell’altrә, il lavoro sulle proprie emozioni, in sintesi la creazione di strumenti utili a lavorare su una cultura della pace. 

Sul vostro sito web il tema dell’educazione alla pace sembra essere il vero fulcro del lavoro.

L’idea alla base è che una scuola è un luogo in cui si apprende e si cresce ma non necessariamente un posto dove si insegna. Significa avere l’opportunità di uno spazio e un tempo dedicati per avere modo di sviluppare delle consapevolezze. Scuola di Pace è forse un nome un po’ utopico, ma a quell’obiettivo, la pace appunto, ci si può avvicinare. Le persone che arrivano alla scuola sono spesso abitate da un pregiudizio positivo: immaginano magari un luogo esente dal concetto stesso di conflitto. In realtà la cultura della pace non prevede la sua esclusione. La questione è come si abita il conflitto e come se ne esce, quali strategie possono essere messe in campo per gestirlo. Questo non si impara certo in un giorno, si tratta di un lungo percorso di impegno, studio e applicazione. Si parte proprio dall’accoglienza della persona, con il riconoscimento di idiosincrasie, preconcetti, stereotipi e si lavora su quelli, inserendoli nel contesto della collettività. 

In che modo lavorate sul conflitto, appunto, e sulla generazione della violenza?

L’idea che porta avanti la Scuola di Pace è di lavorare sui meccanismi della genealogia della violenza. Quando si dice «bisogna ricordare affinché non accada mai più» ci si sta ingannando, perché accade tutti i giorni. Bisogna piuttosto chiedersi: «perché ancora?». Non è utile una condanna sterile del passato, ma è utile la comprensione di ciò che ha generato una determinata violenza. Cosa ci ha portato fino a lì. Anche se da un lato non è mai troppo tardi per occuparsene e intervenire, dall’altro se ragioniamo sui conflitti in essere siamo già fuori tempo massimo. Dobbiamo farci carico della comprensione di cosa ha generato una situazione. E per farlo dobbiamo partire da noi stesse e noi stessi. Un esempio odierno: per quale motivo continuano ad affogare in mare migliaia e migliaia di corpi? 

La linea che seguite sembra quella tracciata a partire da Hannah Arendt.

Certo! Il lavoro di Arendt è uno di quelli alla base degli sviluppi della nostra metodologia. Mi viene da sottolineare un aspetto in particolare riguardo il suo lavoro più famoso, cioè La banalità del male. L’etimologia della parola arriva dal francese ban, che era un editto feudale riportato ai cittadini e che chiunque doveva conoscere. Ecco, in questi termini la parola è interessante: non banale nel senso di semplice o scontato, ma nel senso che riguarda tuttə  noi. Nessunә è esclusә da quel male. 

Questo non perché la cultura della pace sia appannaggio di un semplice individuo, non si scarica sulla persona tutta la responsabilità, specie di un singolo evento, ma se il punto è la costruzione di un sistema di pace allora lì c’è lo spazio per una presa di responsabilità. Io posso imparare a percepirmi come portatrice di qualcosa di diverso dalla pace e posso quindi lavorare su questo. Scheper-Hughes nell’analizzare la genesi della violenza ha parlato di «ipervigilanza difensiva», esempio banale: sono sul bus e vedo il tipico attacco rivolto a una persona migrante. Cosa faccio? Mi espongo? E se poi se la prendono con me? Cosa succede in quel momento? Sono una brutta persona se non lo faccio? In una situazione del genere ci sono infiniti meccanismi che mettiamo in campo e il punto chiave è riconoscerli. 

Come si traduce tutto questo nel tema della resistenza al giorno d’oggi?

È una domanda complessa. Per quello che mi riguarda, la resistenza oggi è resistenza alla semplificazione. Perché è quella la dinamica che ci fa restringere lo sguardo e ci impedisce di trovare soluzioni alternative e creative dello stare insieme, previene la possibilità di mettere da parte la paura dell’altrә

Spesso anche il racconto del passato è troppo semplificato. Ad esempio quando ci si riferisce a un gruppo di persone che hanno fatto scelte difficili per portare avanti la resistenza, cristallizzandone i comportamenti, mitizzando un presunto eroismo. Mentre io immagino la scelta quotidiana e la fatica che deve esserci stata dietro ognuna delle azioni di quel passato. 

Quindi più una pratica che una celebrazione? 

Sì. Le celebrazioni fanno bene, intendiamoci! Perché sono un momento in cui ci si riconosce in una storia e in un percorso comune. Però la resistenza è una pratica quotidiana. Il 25 aprile a Monte Sole passato con persone testimoni di una determinata storia, come Carlo Venturi o Gastone Sgargi o altri della Stella Rossa, è sempre un’occasione meravigliosa. Ma la grandezza e la ricchezza di queste persone sta nella capacità di tradurre l’esperienza storica della resistenza in qualcosa di umano e lasciarci domande, più che risposte.

In questo i luoghi della memoria, come quello che abitate, Monte Sole, che funzione hanno?

Mi preme costruire una piccola premessa rispetto a Monte Sole: per noi dovrebbe essere un luogo capace di parlare a tutte e tutti. Però, alla fine della guerra, Marzabotto è entrato a far parte di una narrazione alla base della fondazione della repubblica italiana antifascista. Il racconto di Marzabotto ha così in qualche modo soverchiato la storia di Monte Sole. Basti pensare che le commemorazioni si svolgono sempre a Marzabotto città, dove non è accaduto di fatto nulla. Qual è il nucleo di significato a cui ci si riferisce? La storia del luogo o la narrazione che citavo? 

La premessa in questo caso serve proprio a spiegare perché purtroppo, di fatto, quel luogo non parla a chiunque. Capita di interfacciarsi con insegnanti che a Monte Sole non vengono perché considerato un luogo di sinistra. È un problema di narrazione, e si torna alla dialettica domande/risposte. La storia di un luogo come quello dovrebbe essere alla base di un discorso rivolto a tutte le persone, prima del giudizio politico. Giudizio rispetto al quale non arretro certo, sul piano personale, come non arretro rispetto alle atrocità che so essere successe lassù, ma quel piano di considerazione deve essere successivo alla narrazione del dato storico. Quella storia, sul piano personale, mi aiuta a chiedermi costantemente dove porre l’asticella, l’importanza di luoghi come questi sta tutta qui. 

Come uscire quindi da un meccanismo di appiattimento delle narrazioni in modo da ridare alla memoria il ruolo di strumento?

Il punto è tenere sempre alta l’asticella dell’attenzione. Non dobbiamo mai ritenerci immuni o indenni da valutazioni legate al nostro modo di abitare il mondo. Stereotipo, pregiudizio, sono meccanismi che riguardano chiunque. Siamo sommersә da propaganda e narrazioni semplificate, ma proprio mettendo in discussione tutto questo allora emerge la curiosità. Bisogna avere un atteggiamento di ascolto come pratica, riconoscendo in chi si ha di fronte un soggetto portatore di una conoscenza. Todorov amava differenziare tra due concetti: il dovere di memoria e il lavoro di memoria. Nel primo caso non si può che rimanere sempre al «mai più», nell’altro invece, nell’esercizio e nell’impegno, emerge con forza il «perché ancora?»

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