«La Destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche»: questo passaggio è il cuore dei sei minuti di videomessaggio in francese, inglese e spagnolo che Giorgia Meloni ha diffuso, poco prima di Ferragosto, per rassicurare la Ue e non solo dopo gli attacchi ricevuti dalla stampa estera. Stampa, sia straniera sia italiana, che Meloni definisce «di sinistra», mentre evoca un presunto «potere mediatico» detenuto, in Italia, dalla stessa.
Ci vuole del coraggio a definire il New York Times di sinistra – nonché il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa e Il Sole 24 ore, i maggiori quotidiani italiani – ma nel nostro desolante Paese abbiamo da tempo smarrito il significato del termine.
Ce lo ricorda anche il Pd, da una parte presentando un programma che rilancia su matrimoni egualitari, ius scholae e contrasto alla violenza e alle diseguaglianze di genere – obiettivi su cui non ha investito con credibilità negli ultimi tre anni di governo -, dall’altra ricandidando Pierferdinando Casini a Bologna, in Parlamento ininterrottamente da 39 anni, il quale, eletto al Senato nel 2018 sempre grazie al Pd, ci mise pochi giorni a passare poi al Gruppo Misto contribuendo, pochi mesi fa, ad affossare il Ddl Zan. Mancano poco meno di sei settimane alle elezioni e agosto, periodo pre-elettorale inedito nella nostra storia, è un mese che siamo abituate a pensare di calciomercato: sarà per questo che la formazione delle liste per i collegi elettorali vi assomiglia così tanto.
Meloni ha liquidato il fascismo come una storia superata, auspicando in chiusura «stabilità, libertà e prosperità», una triade di affascinanti significati che però mal si accompagnano al «Dio, patria e famiglia» rivendicato di recente, «il più bel manifesto d’amore che attraversa i secoli».
È probabile che presto l’avremo Presidente del Consiglio. Sarebbe la prima donna a ricoprire il ruolo e la prima persona erede della tradizione politica fascista a governare dopo il 1945, già leader del partito di estrema destra diretto discendente di quel Partito Fascista che esattamente cent’anni fa si vide consegnato il governo dopo la Marcia su Roma. Una sorta di distopia all’italiana che riprende la sua narrazione saltando quasi ottant’anni e si radica, ancora, al «manifesto d’amore» che nelle tante versioni di sé ha garantito la base ideologica del patriarcato per migliaia di anni.
Non è forse il patriarcato la distopia più grande e potente di tutte?
Me lo sono chiesta visitando a Bilbao Una voz para Erauso. Epílogo para un tiempo trans, esposizione del collettivo LGBTQAI+ Cabello/Carceller, curata da Paul Preciado. Partendo da un ritratto di Juan van der Hamen, scopriamo la vita di Catalina de Erauso, conosciutə anche con vari pseudonimi maschili, avventurierə, militare e scrittorə del Seicento di origini basche che, fuggitə da un convento e dismessi i panni femminili, visse apertamente tutta la sua vita da uomo. La sua storia è raccontata e discussa da tre persone trans che la interrogano e si interrogano, alla ricerca di una genealogia queer che emerga attraverso i secoli.
L’indagine storica queer e il recupero della storia LGBTQ+ e delle donne hanno prodotto domande inedite, per questo stiamo trovando risposte inedite, come anche le scoperte archeologiche più recenti sulle donne cacciatrici e guerriere ci confermano. Al depauperamento del linguaggio, dal significante al significato, opponiamo quindi un orizzonte che preveda il disvelamento della Storia e la conseguente creazione di nuovi e molteplici campi semantici che liberino – davvero – tuttə.
In parallelo continueranno a scorrere la politica e l’economia che ancora prediligono l’esercizio strumentale delle nostre istanze per i propri scopi, al servizio di piccole prospettive non solo svilite nelle idee ma anche insufficienti e inefficaci sul piano della vita reale. A dispetto di tutto, il riscatto dal basso dalla distopia patriarcale è in corso e in accelerazione, il sistema traballa.
Perseguitaci