La parola integrazione inizia a somigliare pericolosamente alla parola tolleranza. Le recenti Olimpiadi hanno riaperto la solita diatriba su chi gareggia per il Bel Paese malgrado non manifesti fenotipicamente l’italianità tanto osannata da certi generali. Accade sempre, nulla di nuovo, anche se oggi la scia si allunga coinvolgendo la cronaca nera in una dinamica per cui se delle persone migranti testimoniano, permettendo l’arresto di un omicida, allora “Sono un esempio di integrazione”. Come esempio di integrazione, per un noto conduttore televisivo, sono persone italianissime che portano agli onori la nazionale di pallavolo nostrana. Un dettaglio non trascurabile, al di là del merito dei casi specifici e delle relative dichiarazioni, è che tutti gli esempi di cosiddetta buona integrazione descrivono situazioni in cui delle persone si adoperano verso l’eccellenza (o verso situazioni di eccezionalità) finché il buon bianco italiano di turno non ne riconosce i meriti. Di fatto qui i problemi sono due: da un lato queste narrazioni sdoganano sulla migrazione la sindrome di Ginger Rogers che riguarda le dinamiche di genere (una donna per essere considerata deve fare tutto ciò che sa fare un uomo ma all’indietro e sui tacchi); dall’altro lato, subentra quella pericolosa vicinanza al concetto di tolleranza, e che riguarda in particolare la direzionalità della dinamica di potere. Se io tollero qualcosa o qualcuno, sto di fatto dimostrando indulgenza verso una situazione o una persona, la dinamica di potere è tutta mia ed è una qualifica morale che muove il contesto. Allo stesso modo, negli esempi citati, l’integrazione sembra essere qualcosa che riguarda unicamente l’altro che arriva qui e a cui io, dalla mia posizione di potere, do una possibilità, decidendo forse a un certo punto di riconoscere che si è fatto abbastanza per riuscire nell’impresa. 

In realtà questo è un utilizzo che presenta un equivoco di fondo: se una persona entra a far parte di un contesto deve essere tutto il contesto a cambiare, non solo quella persona ad adattarsi. La dinamica della cosiddetta integrazione, ammesso che si voglia ancora usare questa parola, deve avere una duplice direzione. Non uno sforzo dell’altro, ma uno sforzo comune. Magari così ci accorgeremo che l’unico ostacolo all’integrazione non arriva certo da chi è diverso da noi, ma proprio da noi che non siamo dispostə a negoziare nulla della nostra presunta identità.

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