L’ESPERIENZA PUGLIESE DI CASA SANKARA NELLA LOTTA CONTRO IL CAPORALATO

di Carmen Cucci

Sulla via di Foggia, poco più avanti del km 657, c’è un cancello dipinto di giallo. Oltre l’inferriata, qualche passo più in là, il ritratto di Thomas Sankara accoglie i visitatori alzando il pugno.

Accanto al volto del giovane presidente del Burkina Faso, assassinato nel 1987 e simbolo della lotta al neocolonialismo, una sua frase: «Lo schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi, merita completamente le sue catene». Un messaggio diretto e perentorio, che non lascia granché spazio a sovraletture: non è accettando passivamente la propria condizione che si ottiene un cambiamento.

Hervé e M’baye hanno fatto della dichiarazione di Sankara uno stile di vita. Zio e nipote, entrambi di origine senegalese, sono a oggi i leader di Casa Sankara – Associazione Ghetto Out, realtà nata con il doppio intento di divenire sia rifugio per coloro che hanno abbandonato il ghetto di Rignano Garganico in Puglia (il più grande d’Italia) dopo la sua chiusura, sia esempio di autodeterminazione migrante contro il sistema del caporalato.

Quando si discute d’immigrazione, sia i rifugiati che i migranti economici diventano oggetto di analisi, statistiche, giudizi e osservazioni; sono però rare le volte in cui essi entrano nel dibattito da protagonisti. Ti chiedo quindi, Hervè, di raccontarci in prima persona la storia di come nascono l’Associazione Ghetto Out e Casa Sankara.

Il nostro percorso nasce da una situazione di sfruttamento: in occasione della sanatoria del 2009, un avvocato di San Severo (FG) espresse il desiderio di aiutarci a rientrare tra coloro che avrebbero ricevuto il permesso di soggiorno. La somma pattuita era di 3500€, cifra versata nella speranza di regolarizzare i nostri documenti: vivere essendo considerati clandestini non fa piacere a nessuno. Dopo aver ricevuto il denaro, però, di quest’uomo abbiamo perso le tracce. Successivamente, recandomi in Questura, ho riscontrato che sia la ricevuta fattami dopo il pagamento che la  presunta iscrizione al registro di coloro che avrebbero beneficiato della sanatoria erano falsi. Lì abbiamo deciso di denunciare e, grazie al supporto di una rete di amici e di altre associazioni, l’idea di creare noi stessi un realtà associativa ha iniziato a prendere forma.

Inizialmente abbiamo cercato di coinvolgere coloro che sapevamo essere stati vittime di raggiri da parte di personaggi senza scrupoli, pronti ad approfittare di coloro che, a causa di leggi opinabili, sono legalmente più vulnerabili.

In seguito siamo venuti a contatto con la realtà del ghetto di Rignano Garganico, a pochi chilometri da San Severo. Ecco, qui mi sembra doveroso aggiungere una cosa: io una situazione abitativa del genere, in Africa, non l’avevo mai vista. E men che meno pensavo di poterla vedere in Italia. Gente ammassata in baracche senza servizi igienici, sporcizia dappertutto, episodi criminali e violazioni di diritti umani all’ordine del giorno: una situazione insostenibile anche solo come spettatore. Anche il sociologo Lorenzo Palmisano l’ha definito “un inferno in terra”.

I ragazzi del ghetto hanno condiviso con noi le loro storie di sfruttamento e caporalato, così li abbiamo aiutati a denunciare coinvolgendo la Cgil e gli altri sindacati, e creando tavoli di dialogo con la Regione. Infine siamo stati invitati dalla Prefettura a esporre il caso .

Quando il primo giorno ci siamo ritrovati di fronte al Prefetto, penso egli abbia udito qualcosa mai sentita prima: “se si vuole davvero lottare contro lo sfruttamento, dobbiamo chiudere il ghetto”.

È in quel momento che nasce l’associazione Ghetto Out, il cui obiettivo diventa appunto metter fine ai soprusi dei caporali e sgomberare il ghetto.

Potresti spiegarmi che collegamento c’è tra il ghetto e il caporalato?

Bisogna immaginare il ghetto non solo come riparo di fortuna per i lavoratori sfruttati, ma anche come casa dei caporali. Quando a scuola studiai il colonialismo, mi documentai sul sistema di reclutamento degli schiavi africani: l’uomo bianco, che non conosceva il territorio, utilizzava un uomo nero come mezzo per soggiogare e schiavizzare le genti autoctone. Quando si parla di caporalato e caporali, mi viene in mente quella figura, non poi così antica.

Nel ghetto, il caporale accoglie un qualsiasi nuovo abitante mettendolo sotto la sua protezione: gli affitta un materasso, lo sfama, gli dona dei vestiti. Addirittura arriva a pagargli prostitute o a comprargli della droga. Nel frattempo, egli segna su di un taccuino tutti i crediti che il nuovo arrivato sta accumulando e non appena quest’ultimo inizia a lavorare tramite il caporale che lo accompagna col suo furgone, comincia la riscossione del denaro dovuto. Un bracciante potrebbe anche arrivare a guadagnare 5000€ in una stagione, ma i suoi guadagni passano prima nelle mani del caporale, il quale decide quanto ognuno deve percepire. È così che nasce lo sfruttamento. Ovviamente, a quel punto diventa difficile per il bracciante sottrarsi dal giogo del caporale: vive con lui, mangia con lui, divide la sua stessa compagnia, ed è per il bracciante l’unica fonte di guadagno.

In tal modo, il ghetto si trasforma in un organismo a parte, dove non vigono leggi se non quella del caporale e dove il lavoratore perde la sua dignità di essere umano, ritrovandosi schiavo.

Voi però ci siete riusciti e il ghetto di Rignano l’avete chiuso.

Non senza difficoltà. L’idea di sgomberarlo ha fatto storcere il naso a molte associazioni che esistevano in virtù dei fondi stanziati per apportare migliorie al ghetto stesso. La Regione arrivava a spendere ogni anno un milione di euro solo per coprire i costi dei bagni chimici e della fornitura di acqua potabile. L’affitto dei soli bagni chimici ammontava a circa 250€ a giornata.

Ergo, gli interessi economici nei confronti del ghetto non sono mai stati pochi, così come non sono pochi quelli dietro al sistema del caporalato. Ho sentito spesso i sindacati lamentarsi della grande distribuzione che costringe gli agricoltori a una guerra al ribasso e specula sulla loro dignità; quasi mai, però, li ho uditi parlare di chiusura del ghetto o di soluzioni per restituire la libertà ai braccianti sfruttati.

Noi, invece, oltre allo sgombero volevamo proporre un’alternativa dignitosa ai lavoratori.

Per trovarla, io e altri amici abbiamo iniziato a esplorare le campagne intorno a San Severo, fino a che non abbiamo trovato dei moduli abitativi abbandonati e inutilizzati dove prima sorgeva l’azienda agricola Fortore. Immediatamente abbiamo messo a parte la Regione della nostra scoperta e della nostra idea di allestire una casa d’accoglienza dedicata a Thomas Sankara qui, vicino alla nostra città. Così, tramite un bando, ha preso forma l’albergo diffuso di Casa Sankara e la Regione ci ha concesso l’usufrutto dei 20 ettari di terreno coltivabile adiacenti all’azienda.

Nel frattempo, dopo due anni di battaglie e grazie all’aiuto preziosissimo del nostro compianto amico Stefano Fumarolo, il ghetto è stato chiuso e i caporali si sono dispersi. Circa 400 di coloro che lo occupavano hanno scelto di trasferirsi a Casa Sankara, alcuni nei moduli abitativi, altri in tende provvisorie. Per noi si è trattato di un traguardo immenso; dopo trent’anni d’illegalità e soprusi abbiamo restituito ai nostri compagni la dignità che spetta a un essere umano.

Cosa ti aspetti dal futuro per Casa Sankara?

Il progetto di Casa Sankara è praticamente appena iniziato.

Al momento, con i lotti di terra a nostra disposizione, coltiviamo grano e pomodori caporalato free destinati al mercato biologico. In futuro la Regione ci ha prospettato un allargamento a 60 ettari, più l’arrivo di altri cento moduli abitativi. Essi al momento si trovano bloccati a Bari da più di un anno per ragioni politiche; ci sono state parecchie rimostranze da parte dei nostri concittadini quando è stato detto loro che stavano per donare “case” agli immigrati. Vedere alcune persone che consideravamo amiche partecipare a queste proteste mi ha spezzato il cuore.

Il nostro obiettivo è costruirci delle regge, ma vivere in condizioni dignitose, seguendo la strada della legalità: lottiamo e lotteremo affinché ce ne venga data l’occasione. A questo proposito, mi piace sempre ricordare l’art. 3 della Costituzione italiana: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizione personali e sociali”. Io ci credo fermamente, come continuo a credere nella bontà di tutti coloro che ci hanno accolto e supportato. Purtroppo il clima politico attuale spinge a considerare l’integrazione una cosa negativa, perciò rilancio con il termine inclusione; più che sentirci dire «aiutiamoli a casa loro», noi vorremmo provare ad aiutarci qui, tutti insieme, a casa nostra.

immagine realizzata da Federica Perazzoli