Arrivai a Bologna nel settembre del 1988, il mese successivo avrei compiuto vent’anni. Nei primissimi tempi mi concentrai su lezioni universitarie, ricerca di una stanza e lavoretti: l’inevitabile tran tran di uno studente fuori sede senza molti mezzi. Mentre familiarizzavo con la città, durante il mese di dicembre Bologna ospitò la Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Una manifestazione volta a mostrare le produzioni di una ventina di discipline diverse. Palazzo Re Enzo era diventato il luogo della musica e delle ore piccole. Sala Borsa, che per me era l’ufficio anagrafe, diventò un luogo di spettacoli con tanto di passerella per sfilate di moda. La città era posseduta da un’effervescenza e un entusiasmo collettivo che non saprei trasmettere in poche righe.
Ma il bello doveva ancora arrivare. In primavera comparve in giro, sui muri, un manifesto nero con una grande scritta rossa: OHSESSO. Sottolineata dalla dicitura “Cassero Porta Saragozza” e le date. Ne trovai uno ancora bagnato di colla. Lo staccai scrupolosamente dall’edificio e lo appesi in camera. Mi fu abbastanza chiaro che fosse giunto il momento di varcare quella soglia e smettere di credere di essere l’unico omosessuale al mondo.
Il 1989 fu per me l’anno in cui incontrai il Cassero e i suoi protagonisti. Quell’anno si concluse con l’accensione di un “carciofo” (origami celebrativo) davanti alla diretta tv del crollo del muro di Berlino. E con la svolta della Bolognina, dalla quale, ancora, non tutti si sono ripresi.
pubblicato sul numero 32 della Falla – febbraio 2018
immagine realizzata da Vinnie Palombino, del collettivo artistico Gli Infanti
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