OMOSESSUALITÀ E VIRILITÀ NELLA ROMA ANTICA

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Quando si parla di omosessualità riguardo al mondo antico si incorre spesso nell’incidente di proiettare laggiù l’età dell’oro di categorie concettuali sovente neppure immaginabili nei tempi che furono. Roma non fa certo eccezione.

Quel sottomesso popolo che avrebbe conquistato il selvaggio vincitore di cui parla Orazio all’alba dell’impero, è stato spesso chiamato in causa, dagli stessi romani, come diabolico artefice della diffusione del vizietto greco che negli anni di Cesare aveva probabilmente raggiunto livelli notevoli. Facendo un passo indietro, negli anni della repubblica, questo appare improbabile: tracce di corrispondenze amorose quantomeno ambigue ce ne sono eccome, tra le celebrità basti citare Cicerone e il suo Tirone, la difficoltà sta nel capire come queste si inquadrassero nella società. Possibile risolvere l’imbarazzante equivoco creato da Marco Tullio, che dal pulpito della retorica si è spesso scagliato contro questo costume mentre, neppur troppo segretamente, lo praticava? La risposta è figlia legittima del sistema di valori fondante della società romana e del suo cittadino: l’unica vera virtù è la virilità.

L’uomo romano (vir appunto) è votato alla non sottomissione e forse, come afferma Eva Cantarella, la sua etica “era quella della sopraffazione […] anche sessuale”. Nulla di male dunque ad applicare all’interno della domus il diritto fondante del cittadino romano e rivolgerlo, in questo caso, verso gli schiavi! L’omoerotismo lecito non oltrepassava questa linea sottile (fatta eccezione per la diffusa prostituzione maschile) tanto che Seneca stesso si trovò così a commentare una sentenza riguardante un liberto che aveva giaciuto con l’ex padrone: “La passività sessuale [impudicitia] per un uomo libero è un crimine, per lo schiavo una necessità, per un liberto un dovere”.

Ancora una volta l’indecenza dell’atto è legata a doppio filo con chi lo subisce, il passivo, e non a caso si parla di sentenze: la fonte maggiore di notizie viene appunto dalla legislazione. In età repubblicana ad esempio compare una disposizione del pretore urbano volta a evitare il fenomeno dell’adsectari, del “seguire in strada a fini seduttivi” (va notato che questa norma è rivolta tanto alla salvaguardia dei praetextati, fanciulli, che delle donne, la cui proprietà era del marito), seguita a ruota dalla poco nota Lex Scantinia che condannava a multe più o meno salate due atteggiamenti: stuprum cum puero, in senso latino “rapporto illecito con un fanciullo” (solo se cittadino romano); il rapporto omosessuale tra due non schiavi (dove si presume venisse punito solo il passivo). L’efficacia di tali leggi pare però non essere stata dirimente, considerato che la società romana si trovò già pronta e preparata ad accogliere i canoni del mondo greco, in particolare nella letteratura. Chi, ad esempio, di Catullo ricorda solo l’amore per Lesbia, ignora quegli occhi che, dice il poeta “oh mio Giuvenzio,/ se potessi baciarli come voglio,/ trecentomila volte li bacerei,/ e non mi sembrerebbe mai d’essere sazio,/ neppure se la messe dei miei baci/ ancor più densa fosse delle stoppie”.

Mettendo da parte le tesi, ormai traballanti, per cui l’omoerotismo poetico latino sarebbe solo e soltanto finzione letteraria, non sembrano esserci dubbi sulla liceità di certi rapporti tra uomini, anche se socialmente soggetti alla censura qualora superassero determinati limiti. Sempre pronto infatti il romano per bene ad apostrofare chi manca di virilità con l’insulto principe rivolto agli omosessuali di ogni tempo: molles (“effemminato”, “checca”); insulto rivolto da un paio di amici allo stesso Catullo, il quale non poté che rispondere riaffermando il solo valore che conta: “In culo e in bocca ve lo metterò/ Aurelio patico e Furio cinedo./ Poco virile mi credete, voi,/ perché son effeminati i miei versetti?/ Conviene che il poeta, lui, sia puro:/ ma i versi no.”

pubblicato sul numero 28 della Falla, ottobre 2017