«Maschile? Femminile? Ma dipende dai casi. Neutro è il solo genere che mi si addice sempre».
Scrittrice, fotografa, attrice, partigiana, comunista, dichiaratamente lesbica, Claude Cahun (nome d’arte di Lucy Schwob) è uno dei casi più affascinanti e precoci nell’arte contemporanea circa l’indagine sull’ambiguità identitaria e la ricerca dell’alterità di genere, attraverso cui tentò una pioniera concettualizzazione visiva dell’identità trans*, proponendo inoltre il travestitismo come una vera e propria espressione artistica. Riscoperta da qualche decennio dalla critica, è divenuta un’icona LGBTQ+ a livello internazionale, e anche presso La Falla ha ricevuto il riconoscimento che merita, con la nomina a Sua Santità giusto un anno fa.
Nipote di Marcel Schwob, autore di quel testo stupendo che è Vite immaginarie, Lucy-Claude sembrò voler proseguire quella prospettiva di discorso sul «reale perfettamente irreale, e appunto perciò onnipotente»: dedicò infatti un’intera vita alla decostruzione dell’identità socialmente e culturalmente data e, per contro, all’infaticabile ricerca di alternative identitarie mutevoli, fluide, mai statiche e stereotipate, secondo un approccio vicino al sentire surrealista parigino, con cui Cahun ha avuto interessanti tangenze. Il suo approccio la vede impegnata tanto nella rappresentazione visuale quanto nell’esperienza quotidiana, condivisa con la compagna di una vita, Suzanne Malherbe, in arte Marcel Moore, sua sorellastra. Insieme costituirono una delle coppie lesbiche più importanti del mondo artistico di Parigi, in una costante fusione tra arte e vita, ben visibile nell’arte di Cahun.
I travestimenti, le maschere e la fluidità stessa dei generi non furono fissati soltanto nelle sue famose fotografie – per quanto in origine molte di esse costituissero parti di un’indagine privata – ma interessarono pure la stessa vita quotidiana di Cahun: si rase a zero i capelli, le ciglia e le sopracciglia, si decolorò e colorò i capelli di rosa, d’oro, d’argento. Tutte operazioni che, all’epoca, furono certamente rivoluzionarie, soprattutto se pensiamo che continuava a indossarle anche lontano dal campo dell’obiettivo fotografico: elementi espressivi ed estetici nuovi, che certo non si fermavano al solo travestimento artistico, ma erano parti di una performance sociale e culturale costante e a tutto tondo. Sotto quest’aspetto si può convenire con Federica Muzzarelli, che vede nella scelta di Cahun di trattare il proprio corpo come materiale per un’operazione artistica degli interessanti prodromi delle ricerche degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Accanto alla produzione artistica, bisogna ricordare che Cahun era anche una scrittrice. Nella parola, scritta e parlata, vi sono innumerevoli possibilità di evocare ambiguità e fluidità di genere, e questo Lucy-Claude lo sapeva bene. Basti pensare al suo stesso nome d’arte, per cui Claude è evidentemente un nome foriero di equivoci, essendo qualificabile nella lingua francese sia come femminile che come maschile. Altro punto importante, e molto spesso trascurato dalla critica, è quello riservato al cognome.
“Cahun” non è altro che la forma francese di Cohen e, come ha evidenziato per prima Rosalind Krauss, implica un legame diretto col mondo ebraico. Il nome d’arte è già un atto di rivolta, una performance provocatoria capace di unire l’ebraismo all’indeterminatezza di genere, in un periodo storico qual era quello a cavallo degli anni Venti e Trenta del Novecento in cui il rigurgito antisemita era sempre più prepotente e diffuso.
Sembrerebbe un caso isolato, tuttavia anche Marcel Duchamp realizzò un’operazione simile con la sua Rrose Sélavy, alter-ego femminile dell’uomo-artista. Bisogna però evidenziare le opportune distinzioni tra Cahun e Sélavy-Duchamp: se infatti in quest’ultimo caso la donna si configura come identificazione perfetta, in Cahun, grazie soprattutto al medium fotografico, si nota una volontà di sfuggire costantemente alla staticità data dall’identificazione visiva con un solo alter-ego. Un vero e proprio processo dato da incessanti disidentificazioni e re-identificazioni, nel corso delle quali l’unica costante è la neutralità del soggetto che vi si presta. Dunque un’arte realmente vissuta, fissata e resa reale tanto quanto la vita stessa dalla fotografia, che le garantisce innumerevoli trasformazioni e, al contempo, una garanzia dell’esserci in un continuo e mutevole fluire.
Nelle parole di Claude Cahun è racchiusa tutta la potenza di un tale atto:
«Travesti la mia anima. Ho sfregato così forte per togliermi la maschera che mi sono tirata via la pelle. E la mia anima, come una faccia graffiata, spellata, non ha più forma umana».
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