Bologna, settembre 2019
La mia prima casa: vecchia, fredda, sporca, però la mia prima casa. All’ultimo anno della triennale mi trasferisco a Bologna.
«Ovviamente è per studiare meglio», dice mio padre. Non esattamente: venendo da un paese di provincia della bassa modenese, incastrato tra i campi di pere e i banchi di nebbia, ho una voglia matta di vivermi la città, in particolare la città gaia. A Mirandola, da dove vengo io, i gay dichiarati si possono contare sulle dita d’una mano e Bologna per me è un paradiso terrestre.
Bologna, febbraio 2020
Sono passati quasi 6 mesi e qui ho imparato un sacco di cose. Non pensavo, ma ho scoperto che mi sento a mio agio nel truccarmi. Avevo una paura matta del mascara, mi rendeva lo sguardo troppo femminile. Ora me lo metto per andare a lezione. Mi diverto a disegnarmi le labbra più grosse di quel che sono e credo di aver sviluppato una dipendenza dal glitter. Il coronavirus non è più in Cina, ora è a Codogno e chiudono le facoltà per due settimane, forse è meglio tornare a casa.
«Ma sì, cosa vuoi che sia ’sto virus, massimo maggio e sarò di nuovo a Bologna». Quattro mesi dopo disdico l’affitto.
Mirandola, marzo 2021
Bologna è un lontano ricordo, forse più una fantasia: mi mancano i drink del Barattolo, le tisane alla Biblioteca delle Donne, i baci dati in pista al Cassero, il siriano in via Fondazza, gli spritz da Ken. Ora i miei genitori e i miei fratelli sono le persone che vedo di più in assoluto, le amiche le incontro raramente in videochiamata; dal vivo rigorosamente all’aperto e con la mascherina, quelle che stanno nel mio comune. Stare qui non è facile ed è stancante.
Ogni volta che faccio qualcosa di strano, sento gli occhi della mia famiglia puntati su di me. Confusi, giudicanti, mai d’odio per fortuna. Sono tanti piccoli sassi che piano piano gravano sulla mia schiena. «Queste unghie sono troppo lunghe». Un sasso. «Perché hai lo smalto?». Un altro sasso. «Ma ti stai truccando?». Un altro ancora. Ogni volta che vado a trovare i miei nonni mi tolgo gli orecchini perché a loro non piacciono. I miei tacchi sono finiti in alto sulla scarpiera, a prendere la polvere. I miei trucchi chiusi nella pochette, ormai saranno scaduti, e le poche volte che li uso mi guardo bene dal non essere disturbato ed è facile esserlo quando si è in sei in casa. L’unica cosa che ho deciso di non nascondere, anche perché non ho potuto, sono stati i capelli: prima rosa e poi verdi, una macchia di colore nel grigio della nebbia mirandolese, che ho pagato con un pianto di mia nonna e occhiatacce lungo le strade.
Eppure sarebbe così facile ricominciare a mettersi quel filo di mascara. Ho la fortuna di avere una famiglia che mi accetta, le loro sono solo incomprensioni, basterebbe parlarsi e avere pazienza. Sì, pazienza. Ma come si fa ad avere pazienza se, a indossare un semplice paio di pendenti, tuo padre e tuo fratello pensano che «vuoi diventare una donna»? Come si fa a esser pazienti dopo aver vissuto in una città che non faceva nessuna domanda, ti accettava e basta? Possibile ritrovare l’equilibrio in un paesino da cui te ne sei voluto andare, vivendo di sogni e speranze nell’attesa che passi la tempesta?
«The sun’ll come out/ Nothing good ever comes easy/ I know times are rough/ But winners don’t quit/ So don’t you give up». After The Storm, Kali Uchis ft. Tyler, The Creator, Bootsy Collins
Illustrazione realizzata Lola
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