ABBIAMO IL POTERE DI RESISTERE, IN UN MONDO DISTOPICO?

I romanzi utopici scritti dalle donne si sono evoluti notevolmente nel corso del XX secolo. Mentre l’Utopia di Thomas More è stata ripetutamente reinventata nel tempo, negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale i romanzi utopici sembrarono scomparire. Riemersero negli anni ’70, quando la fantascienza femminista infuse nuova vita al genere. Tuttavia, qualcosa era diverso in questi scritti: le questioni di genere, la soggettività, la riproduzione e la sessualità delle donne erano diventate il fulcro delle storie, inaugurando le cosiddette utopie critiche. Nonostante questo genere letterario rappresentasse una potente forma di resistenza, ebbe vita breve.

Come sottolinea Raffaella Baccolini, docente di Studi Interculturali e di Genere presso l’Università di Bologna e co-direttrice della collana di studi utopici Ralahine Utopian Studies, verso la fine del secolo le distopie critiche attrassero sempre più significativamente l’interesse delle autrici femministe. A differenza della narrativa utopica del passato, questo nuovo genere non trattava utopia e distopia come realtà statiche e mutuamente escludenti, bensì offriva alle storie finali ambigui e aperti, nei quali diventava possibile non solo la resistenza, ma anche l’impulso a trasformare la società.

Eppure, era solo il 1937 quando La notte della svastica di Katharine Burdekin divenne con ogni probabilità la prima distopia critica mai scritta. Pubblicato con lo pseudonimo di Murray Constantine, il romanzo di Burdekin va oltre la denuncia del regime totalitario nazista tedesco e la previsione di molte delle atrocità dell’imminente guerra. A differenza di molti autori uomini che più tardi avrebbero seguito Burdekin senza badare alle politiche di genere, l’autrice si rivolge alla sottomissione e all’oppressione delle donne per spiegare come vengono fondati i regimi totalitari e patriarcali. Basandosi su questo, La notte della svastica descrive la costruzione dell’inferiorità femminile e il culto della mascolinità come elementi che, lungi dall’essere anomalie dei regimi fascisti, sono solo quantitativamente differenti rispetto alle nostre realtà attuali fondate sui ruoli di genere.

Ambientato in un impero tedesco istituito centinaia di anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, il romanzo rivela una società distopica costruita dagli uomini allo scopo di soddisfare i propri bisogni e in cui le donne, rinchiuse e segregate rispetto alla società maschile, sono private di tutti i diritti. Vivendo in uno stato di apatia e ignoranza, mancano di identità, di autodeterminazione sul proprio corpo e di una propria soggettività. In conseguenza del loro status di inferiorità, adempiono esclusivamente a uno scopo biologico di procreazione e devono cedere i loro figli maschi all’impero subito dopo il parto.

Poco si sa delle origini di questo regime, e poco viene messo in dubbio da coloro che appartengono all’impero nazista. Tutte le testimonianze storiche del passato sono state distrutte: libri, letteratura o qualsiasi informazione su regimi stranieri anteriori. I ricordi sono stati sostituiti da un discorso egemonico, basato sul culto dell’oppressione e della violenza. Il linguaggio serve solo a garantire la ripetizione di norme, date per scontate negli atteggiamenti sia degli uomini che delle donne. Tuttavia, c’è ancora spazio per una resistenza.

La verità sulle fondamenta e sulla storia del regime è stata ben nascosta. È custodita come segreto di famiglia, contro le regole del regime, in un libro scritto dal Cavaliere von Hess e conservato di generazione in generazione. Con gli scritti, è stata tramandata all’ultimo cavaliere della famiglia anche una vecchia fotografia. Quando questi decide di condividere il segreto con Alfred, un inglese con cui sente affinità, emerge il primo motore della resistenza contro il regime totalitario nazista.

Attraverso lunghe conversazioni con il Cavaliere, Alfred viene a conoscenza di tutte le bugie che costituiscono la struttura del regime. Rimane particolarmente colpito da una di queste: la degradazione delle donne come fenomeno naturale e innato. L’inferiorità delle donne è invece non un dato biologico, bensì una costruzione di genere su cui il sistema patriarcale ha fatto a lungo affidamento per sostenere il suo regime totalitario. Alfred arriva alla conclusione che le donne sono state private di due cose che gli uomini hanno sempre avuto: in primis, il diritto al rifiuto, da cui deriva la loro vulnerabilità sessuale; in secondo luogo, la mancanza di orgoglio per il proprio sesso, che ha impedito loro di riconoscere l’inganno della loro inferiorità. Pertanto, le donne hanno mancato la propria soggettività e sono diventate la proiezione della creazione maschile, in un mondo guidato dai valori della mascolinità.

Dopo avere scoperto questa contronarrazione della storia manipolata del regime, Alfred inizia ad affezionarsi alla figlia appena nata, Edith. Il suo desiderio impossibile di renderla una persona pienamente realizzata porta alla luce un aspetto importante del romanzo: la costante dicotomia tra un potenziale emergente di sfida contro il regime, e il fatto che l’unico detentore di questo potere sia un uomo.

Per quanto possa apparire contraddittorio per un romanzo femminista, Burdekin sembra avere spesso evidenziato la natura ambigua della distopia critica. Come spiega Baccolini nel suo contributo alla raccolta di saggi critici Future Females, The Next Generation, è vero che Alfred decide di non dotare la propria figlia di agency, per evitare che venga esclusa dalle altre donne. Tuttavia, la sua scelta di trasmettere il libro, insieme ai suoi principi, a suo figlio, garantisce la sopravvivenza delle sue vere convinzioni. In altre parole, la capacità di mantenere viva una contro-memoria in un regime che non tollera altre narrazioni oltre alla propria è già, di per sé, un atto sovversivo, forse l’unico possibile in quel contesto.

La notte della svastica sorprende ancora oggi per la sua contemporaneità, nonostante sia stato scritto oltre settant’anni fa. Il regime totalitario rappresentato in questo libro di fantascienza non è, dopotutto, così radicalmente diverso dal nostro mondo. Già nel periodo prebellico, Burdekin ci ha mostrato quali rischi si corrono quando i regimi autoritari non sono chiamati a rendere conto per le loro violazioni passate e i loro attuali atti di violenza. Sottolinea l’importanza degli studi sulla memoria come maniera per prevenire la ripetizione della storia e per sfidare l’ordine sociale, che è, di fatto, costruito.

Al centro di questo tema è la potente critica di Burdekin contro l’ideologia del regime che determina lo status di inferiorità e di sottomissione delle donne come un dato naturale, anziché come una falsificazione culturalmente imposta. Come proposto anche da Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf, l’essere donna è stato storicamente costruito per riflettere la figura degli uomini, piuttosto che la loro propria soggettività. Decostruendo il genere e il discorso egemonico, l’autrice parla anche alla nostra realtà, molti anni dopo.

L’impegno di Burdekin nel denunciare l’inferiorità delle donne come parte di una narrazione dominante è con ogni probabilità il più grande contributo offerto da questo libro alle società future. Sfidando il genere distopico classico, il finale aperto del romanzo affronta la possibilità di cambiamento che può esistere, in tutti i nostri mondi, se solo osiamo resistere.

Il presente articolo è disponibile anche in inglese

Traduzione dall’inglese di Martina Zini

Immagine nel testo da: www.recensionilibri.org