MOSTRI, SIRENE E ALTRI CORPI OSCENI
Pieles (Spagna, 77’) è un film di Eduardo Casanova che pressoché nessunǝ sembra conoscere, nonostante abbia debuttato alla Berlinale nel 2017 e sia disponibile (con il titolo Pelle nella versione italiana) anche su Netflix. Diverse persone alle quali ho linkato il trailer – in spagnolo, con la stessa versione malinconica e struggente di Alguien cantó che accompagna l’entrata in scena di Laura bambina, avviando la narrazione – mi hanno rimandato, per tutta risposta, quella reazione di disagio e atterrimento che tipicamente caratterizza il confronto con il tabù. Per guardarlo, ne deduco, bisogna avere fegato, pelo sullo stomaco, insomma quella qualità morale che varie metafore in diverse lingue associano a parti vitali del corpo. Il fatto è che le stelle di questo film sono personaggi dai corpi “deformi”, aggettivo che ricorre (a volte tra virgolette, a volte no) tanto nelle sinossi quanto nelle recensioni. Sono porzioni dei loro volti a comporre, in un collage digitale rosa confetto, la locandina. Anche chi scrive è una persona “deforme”: mi manca un occhio, il destro, e non dirò che l’ho perso, come suggerisce un’espressione eufemistica comunemente usata per spiegare simili anomale circostanze senza turbare la sensibilità altrui. In verità, né gli occhi, né altre parti del proprio corpo si perdono come gli ombrelli, sono separazioni più complicate e violente da raccontare. Ma posso evitarlo perché porto una protesi estetica, dipinta a mano da abili artigianǝ in modo da imitare il più realisticamente possibile un occhio vero – letteralmente un trompe-l’oeil. Solo io mi vedo senza, quando la tolgo e mi riapproprio, attraverso lo specchio, del mio volto reale. Non sorprenderà dunque che la creatura mostruosa che occhieggia dal poster, così pink, così morbidamente invitante, accompagnata da un titolo tanto sensuale (esiste un organo più intimo della pelle?), mi abbia subito conquistatǝ. Laura senza occhi ci è nata, ma un cliente abituale del bordello nel quale vive e lavora fin da bambina le ha regalato due occhi posticci di diamante color Barbie, che io le invidio tantissimo, perché a me nessun protesista ha mai accettato di farli così, quando glieli ho chiesti. Samantha, invece, al posto della bocca ha il culo e viceversa. Il suo colore è il lilla, lo stesso di Cristian, che a diciassette anni ha un fisico e lineamenti apollinei, eppure è infelice perché vuol essere una sirena e le sue gambe gli sono di troppo. Ana sul volto ha un tumore esteso, Guillermo le cicatrici profonde causate da una grave ustione. Vanesa è nana e veste quotidianamente i panni di un pupazzo in un programma televisivo per bambinǝ. Della cameriera lesbica e grassa che conduce un’esistenza anonima e furtiva sul confine tra norma e anomalia resta, emblematicamente, ignoto il nome. Attorno a questǝ freak si muovono altre figure, perlopiù considerate “normali” nell’aspetto ma variamente ripugnanti nell’animo, in un intreccio che, come le narrazioni mitologiche, mescola l’umano al divino, il reale al soprannaturale e costruisce archetipi attraverso i simboli. Dell’immaginario simbolico queer c’è tutto: i rosa e i lilla stucchevoli che dominano le scenografie, il glitter e altre cose che luccicano, le sirene, gli unicorni, i pupazzi dei manga, il culo, la hit romantica da ballroom e l’aria operistica, limoni che esplorano l’infinito, perfino il crocifisso che spunta irrisoriamente in mezzo a un tripudio di favolosità. Ma anche la merda, il vomito, le canne, la lavanda anale; la violenza familiare, lo stupro, lo sfruttamento. Non mancano, ça va sans dire, le identità trans*, che restano però sullo sfondo, una volta tanto esentate dal ruolo canonico di ambasciatrici della queerness. Pur con tutto questo, Pieles non è affatto un film trash, né indulge nello splatter, bensì è piuttosto un affresco allegorico, stilisticamente curatissimo. Casanova, già attore di lunga esperienza quando tra i 23 e i 25 anni lo ha scritto e diretto, porta il suo personalissimo sguardo su corpi osceni, disabili, trans*, grassi, vecchi e nudi ma anche sulle declinazioni più ignobili e proibite del desiderio, sulle illusioni e le speranze a cui noi umanǝ non riusciamo a rinunciare per quanto disattese, calando le sue eroine in un’atmosfera sognante e surreale, avvolta da una luce benevola che comprende e accoglie. In questa chiave poetica e infantile, come nelle favole, tutto si incastra e ognunǝ di loro, a modo proprio, trova il suo posto, una dimensione di appartenenza, al di là del bene e del male, del bello e del brutto. Sulla corsa disperata di Cristian verso la sua felicità si levano trionfali le note della Habanera, dalla Carmen di Bizet: «L’amour est un oiseau rebelle que nul ne peut apprivoiser». Suppongo valga per le sirene come per tutte le brutte anatroccole che non hanno ancora scoperto di essere cigne. Forse anche questo film non ha ancora trovato il suo pubblico d’elezione. Se anche voi avete corpi non conformi, se vi sentite più affini a mostri e sirene che alle rappresentazioni del corpo che dominano l’immaginario collettivo, dategli una chance.
Immagine in evidenza: ilcineocchio.it Immagini nel testo: removiescom, 366weirdmovies
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