La depressione tra invisibilità e stigma
di Irene Moretti
Quattromilionicinquecentomila, è questo l’impressionante numero di persone depresse secondo il Libro bianco realizzato da Onda – Osservatorio nazionale sulla salute della donna nel 2016. Quattromilionicinquecentomila persone solo in Italia.
Quattromilionicinquecentomila persone che spesso tacciamo semplicemente di essere troppo condizionate da quello che liquidiamo come “malumore”. Uno scazzo, una sciocchezza, quella cosa che tutti chiamano in causa quando hanno una sfiga in amore o hanno avuto una giornata no. Un qualcosa sul quale spesso – e l’abbiamo fatto tutti – facciamo battute di una superficialità tale che se ci fermassimo due secondi a pensare ci vergogneremmo di noi stessi. “Che depressione!”, diciamo, con tutta la pesante leggerezza di quando parliamo a frasi fatte. Del resto, nella maggior parte dei casi chi soffre di questa malattia – che tra l’altro secondo l’Oms è destinata a diventare la malattia cronica più diffusa entro il 2030, perché sì, è una malattia e sì, è cronica – sembra una persona perfettamente funzionale.
Quante persone avete sentito parlare apertamente della propria depressione? Se il numero che avete pensato supera le dita di una mano, allora siete fortunati. Già, perché sembra che parlarne apertamente sia ancora una grandissimo tabù. Togliamo il sembra: lo è. Parlare di depressione può significare solitamente due cose. Nel migliore dei casi passare per un esibizionista, nel peggiore vedersi cucita addosso la lettera scarlatta dello stigma della malattia mentale. Nella seconda ipotesi, poi, potrebbero aprirsi due scenari: essere vittime di un inutile eccesso di pietà – e invero spesso più dannoso che altro – o essere degradati a paria sociali. Entrambi scenari poco edificanti.
Ci sono due livelli di paura quindi quando si ha a che fare con la depressione: quello di accettare di averla e quello di come la società accetterà il fatto che tu ce l’abbia. Questa paura porta solitamente al rifiuto dell’idea di chiedere aiuto, rifiuto che a sua volta porta a ritardi di anni dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi. Anni durante i quali molte cose si sarebbero potute fare, ma che vengono passati a soffrire in silenzio: immaginate cosa può voler dire per un adolescente. Anni durante i quali a volte succede l’irreparabile. E la cronaca, purtroppo, ce ne dà triste conferma ogni giorno.
Provate a immaginare cosa voglia dire avere la consapevolezza di aver qualcosa che non va, un qualcosa che a volte è insignificante e che invece altre volte è un buco nero che vi schiaccia nel suo campo gravitazionale. Provate a immaginare le parole che potreste usare e provate anche a immaginare come può essere cercare di chiedere aiuto senza sentirsi ancor più vulnerabili. Se non ci riuscite il motivo è solo uno. Se, ogni volta che qualcuno decide che questo peso è insopportabile e la fa finita, cadiamo dal pero, magari perché “sorrideva sempre”, il motivo è uno soltanto: di depressione non sappiamo parlare. Forse non ne vogliamo parlare, convinti dai personaggi della Buy che essere depressi voglia dire essere dei nevrotici dipendenti dal proprio terapeuta; convinti che lo Zoloft ti renda chissà quale tipo di zombie nelle mani di chissà quale cospirazione di Big Pharma. E allora tacciamo, per non essere colpiti dalla lettera scarlatta dello stigma della malattia mentale. Fino a quando a furia di tacere qualcuno ci costringe a cascare di nuovo dal pero. Ad libitum.
pubblicato sul numero 29 della Falla – Novembre 2017
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