Chi è Ana Mendieta? E, soprattutto, dov’è? Non sono domande di circostanza, né le risposte sono semplici e univoche. Ri-scoprire la sua vita, la sua opera, il suo opporsi a una visione del mondo patriarcale, bianco e votato al profitto e al consumo – riassumendo, una visione scopertamente americana – ci permette di comprendere quali sono le emergenze socioculturali di cui dobbiamo occuparci. Anche a distanza di ben 36 anni dalla scomparsa di Mendieta, la cui unica colpa fu di essere migrante, donna e artista outsider. Emergenze che per molti sembrano essere rientrate, assorbite, scomparse. Tuttavia, se andiamo a vedere quante donne vengono uccise ancora oggi ci accorgiamo che la violenza maschile, radicata ed endemica, non è scemata.

Sì, vale la pena parlare di Ana Mendieta, giovane artista di origini cubane morta in circostanze sospette, nelle quali un ruolo fondamentale sembrò esser stato giocato dal marito, il famoso artista minimalista Carl Andre, poi assolto da ogni accusa in due distinti processi. Secondo i giudici, si trattò di un tragico incidente, non ci furono prove evidenti di omicidio a carico dell’uomo. 

Eppure, Ana Mendieta cadde dall’appartamento al 34esimo piano di un palazzo nel Greenwich Village nel quale viveva con Andre. Un vicino, nei giorni successivi al fatto, testimoniò di aver sentito una donna urlare ripetutamente «No!» poco prima dell’ora del decesso e la polizia, una volta arrivata sul luogo, constatò che le braccia e il viso di Andre presentavano graffi da unghie. Carl Andre, chiamando il 911, disse che lui e Ana stavano litigando – una banale lite coniugale – dopo la quale Ana si sarebbe gettata volontariamente dalla finestra. 

Qui nasce la polemica: Ana Mendieta fu vittima del patriarcato? 

Impossibile dare una risposta certa. Prima di tutto ciò, prima di divenire per alcunɜ un simbolo, Ana Mendieta fu un’artista. 

Cubana, fu espatriata, insieme alla sorella, a soli 13 anni negli Stati Uniti, in quella che poi passò alla storia come Operazione Pedro Pan (1960-62). Per volere del padre, oppositore del regime di Castro implicato nell’invasione della Baia dei Porci, Ana e sua sorella subirono un brutale sradicamento dalla loro terra natia. Arrivate nel suolo statunitense, furono sballottate tra centri di accoglienza e famiglie affidatarie, quindi separate. 

Ana si stabilì in Iowa, dove più tardi frequentò la locale università, laureandosi dapprima in Pittura (1972), quindi in Intermedia (1977). È in questi primi anni intensi di scoperta del proprio potenziale espressivo e artistico che Mendieta, grazie alla vicinanza con l’artista e accademico Hans Breder, venne introdotta all’interdisciplinarietà della pratica artistica contemporanea. Questi le fece conoscere l’arte di Marcel Duchamp, Yves Klein e, soprattutto, degli artisti dell’Azionismo Viennese. Da quest’ultimo gruppo, Ana rimase colpita dalle performance di Hermann Nitsch, controverso artista che sfrutta il sangue e i cadaveri di animali  secondo una volontà di catarsi vicina ai riti sacrificali antichi. Anche per lei il sangue come medium artistico (e politico) diventerà una costante espressiva.

Durante gli anni di formazione, Ana comprese cosa significhi essere e sentirsi discriminata in quanto donna, con tutte le violenze che ne conseguono. 

Già nel 1973 compì un primo atto di coraggio contro il sistema misogino dell’arte. Dopo lo stupro e l’omicidio di Sara Otten, avvenuto nel suo stesso campus universitario, Ana invitò colleghi e docenti nel proprio appartamento per quella che sarebbe passata alla storia come una delle performance artistiche più discusse e visivamente feroci del panorama contemporaneo. Gli invitati arrivarono nell’appartamento di Mendieta e si trovarono di fronte a una scena raccapricciante: una porta spalancata e una ragazza – Ana, che s’immedesimava in Sara – brutalmente denudata e sporca di sangue, esattamente come fu ritrovato il corpo esanime della ragazza assassinata. L’obiettivo era chiaro: Ana voleva sbattere in faccia alla comunità degli artisti dell’università, e per estensione all’intera società, lo stupro, la violenza contro la donna

Alla notizia della morte della studentessa, Ana capì che, malgrado tutto, quello che avrebbe dovuto sconvolgere l’uomo nella vita reale non avrebbe sortito alcuna reazione. Sarebbe stato commentato al massimo con qualche frase di circostanza. Ana sfruttò la potenza dell’arte, l’esserci in prima persona della performance per trasmettere il messaggio, la denuncia: una condanna allo stupro, alla violenza di genere, a quello che più tardi si sarebbe chiamato femminicidio. 

Non una trasposizione, quindi, ma la presentazione a grado zero di una realtà che, attraverso l’arte, trova una forza insperata in un mondo misogino, maschilista, patriarcale. 

Nel 1980, diversi anni dopo Rape Scene, Mendieta disse che quella performance condensava i fondamenti della propria arte: la rinuncia alla teoria, all’elucubrazione idealistica, a favore di una risposta personale e diretta a una situazione ben precisa, una reazione decisa all’idea della violenza di genere.

Sempre nel 1973 l’artista propose altre azioni performative sul tema, spostando talvolta lo stupro in ambienti esterni e, in un’altra occasione, presentando una stanza vuota dove sembrano essersi consumate azioni violente. Anche in queste azioni un ruolo preponderante è dato dal sangue e dall’opera di distruzione, dal caos generati da una forza brutale e cieca.

È proprio questa sua presa diretta sulla violenza di genere, espressa per stimolare una reazione in chi osserva l’opera, che ha lasciato il segno e funge ancora oggi da ispirazione per moltɜ altrɜ artistɜ femministɜ che, a seguito della scomparsa di Ana nel 1985, hanno dato seguito alla sua denuncia

In questo contesto non sono mancate le prese di posizione, radicali quanto sentite, della comunità di artistɜ che, malgrado l’assoluzione di Carl Andre dall’accusa di omicidio per mancanza di prove, vedono proprio in lui l’assassino di Ana Mendieta. 

A oggi si contano oltre trent’anni di proteste contro di lui, alle mostre dov’è presente e in contrasto all’industria artistica dominata perlopiù da uomini bianchi e cishet.

Tra le iniziative che hanno fatto sentire maggiormente la propria voce, riaccendendo il ricordo di Ana Mendieta quale artista, donna e vittima di femminicidio, c’è WHEREISANAMENDIETA?, lanciata nel 1992 da Women’s Action Coalition (WAC) e dalle artiste e attiviste femministe Guerrilla Girls. Si tratta di un «collettivo internazionale di persone che lottano contro l’indifferenza delle istituzioni culturali nei confronti delle donne/donne di colore/minoranze etniche/trans/gruppi oppressi ed emarginati», e per far ciò punta a destabilizzare il sistema dell’arte, a partire dall’occupazione abusiva degli spazi dedicati a mostre ed eventi nei quali gli uomini, perlopiù bianchi e privilegiati, dominano la scena malgrado il loro – possibile – passato violento

In tutto questo, il ricordo di Ana Mendieta non è un pretesto, né è strumentale: tra gli obiettivi primari del movimento c’è infatti la volontà di riabilitare tanto la sua memoria – facendo luce sulla sua misteriosa morte – quanto la sua arte, che all’epoca del processo contro Andre fu usata addirittura da psichiatri ed esperti per provare una sua presunta instabilità mentale, nel solco di un approccio sessista e xenofobo che vuole, ancora oggi, dipingere Ana Mendieta come una pazza scomoda.

Sì, Ana Mendieta dovrebbe essere ancora tra noi, per incoraggiare le donne, lɜ oppressɜ di qualsiasi tipo, ad alzarsi, gridando contro ogni violenza. 

Rimane inossidabile l’eredità della sua arte, profondamente intrecciata con la sua presenza in questo mondo, con il suo impegno. 

Ecco qual è l’ispirazione più forte e duratura di Ana Mendieta: un’arte e un attivismo espressivo che sopravvivono alla vita stessa e che ancora oggi sono un prezioso insegnamento per ogni giovane artista che voglia giustizia e verità. Insomma, un mondo in cui una donna non viene più picchiata, o uccisa, in quanto donna.

Bibliografia

Jane Blocker, Where is Ana Mendieta? Identity, Performativity and Exile, Londra 1999Helena Reckitt, Peggy Phelan, Arte e Femminismo, Londra 2005