Indie Pride e l’orgoglio consapevole
Si può dare un compito alla musica? Si può sfruttare il suo veicolo comunicativo, le parole, a prescindere dalla composizione musicale, per formare e informare? Quando nell’antica Grecia furono identificate le Belle Arti, la loro nobiltà consisteva nell’essere un’espressione dell’intelletto creata con scopi per lo più estetici che non dediti all’utilità. Nonostante questo, nel corso dei secoli il messaggio è diventato parte fondamentale della loro critica, a volte tralasciando completamente la piacevolezza fine a se stessa dello sguardo e dell’ascolto. E per fortuna, viene da dire. Perché nella ragnatela intricata delle asserzioni che regolano il nostro quotidiano, e che continuamente montiamo e smontiamo, ricostruendole in nuove forme perché aderiscano meglio alle intenzioni, il messaggio artistico si manifesta con un’innegabile potenza e capacità di penetrazione.
Tra le Belle Arti, la musica è quella che possiede la più alta capacità comunicativa, e il graduale adattamento del suo linguaggio a quello quotidiano ne è motore e conferma. Ecco perché la scelta di quest’arte come veicolo di comunicazione di un messaggio importante, la lotta all’omofobia, non è una scusa ma una brillante intuizione che sta ribaltando il modo di concepire l’artista. Nel panorama italiano, dove, è quasi superfluo ricordarlo, anche uno dei cantanti più acclamati al mondo non può andare in televisione in prima serata in quanto gay, vale la pena fermarsi a riflettere sulla potenza comunicativa degli artisti musicali. Se da una parte la comunità LGBT+ non smette di chiedere a piena voce il coming out di cantanti famosi/e (mal soddisfatta da pochissime, timide, e a volte discutibili, dichiarazioni), da un’altra parte c’è chi si rivolge alla musica con richieste meno personali e più trasversali.
Indie Pride, idea nata nel 2012 da un gruppo di donne a Bologna e concretizzatasi in associazione nel 2016, chiede agli artisti di impegnarsi, con la loro musica, nella lotta all’omofobia (e bullismo e sessismo). Lo fa, consapevole del potere che hanno di lanciare un messaggio e renderlo condivisibile, rivolgendosi agli e alle indipendenti dell’industria musicale; perché nel mondo indie che ha travolto la discografia recentemente – e che da poco si affaccia timidamente alle radio – l’artista non è un divo, un mito da guardare da lontano, ma una persona che abita lo stesso universo di ascoltatori e ascoltatrici: “È più terra-terra, più vicino ai/alle fan di quanto non lo sia un artista mainstream, quindi il messaggio che arriva è più diretto e meno artefatto”, ci racconta Antonia Peressoni, attuale presidente, tra le ideatrici del progetto Indie Pride.
Un progetto che si è fatto strada pian piano, a suon di incursioni e concerti, e che si è concretizzato quest’anno in una vera e propria dichiarazione di lotta: una carta d’intenti, da firmare con un bacio, mirata a sensibilizzare e promuovere una musica che, pur nel suo essere libera e indipendente, sappia responsabilizzare e responsabilizzarsi. Delle circa 80 persone, tra musicisti e addetti/e ai lavori a cui è stata mandata, hanno risposto in 45: questo non significa che gli altri 35 non la condividano, ma che forse non c’è ancora sufficiente consapevolezza dell’importanza di prendere una posizione.
E mentre da un lato si aspira ad avere artisti consapevoli, dall’altro si cerca di coinvolgere i fan, soprattutto fra le persone più giovani: tra alternative rock e folk europeggiante, il “vaffanculo” all’omofobia, inneggiato dalla drag queen e gridato da un pubblico giovanissimo nel concerto-evento del 2017, non può che essere incoraggiante.
pubblicato sul numero 30 della Falla – dicembre 2017
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