IL GRANDE SILENZIO SULLE VIOLENZE CONTRO LE DONNE NATIVE

di Francesco Colombrita

Secondo un rapporto di Amnesty international del 2009 dal titolo Labirinto di ingiustizie, una donna nativa americana su tre sarà violentata nel corso della sua vita. Percentuale sicuramente da gonfiare vista la cifra nera derivata dalle frequenti mancate denunce. Inoltre, nell’86% dei casi questi stupri sono perpetrati da persone non native. Stando a dati diffusi dal Dipartimento di Giustizia di Washington nel 2018 la situazione è ancora più inquietante. Non solo la frequenza di questi reati raggiunge proporzioni sconvolgenti, ma esiste un farraginoso sistema di leggi che rendono di fatto quasi impossibile perseguire gli stupratori quando sono non-nativi, in sintesi bianchi. La giustizia nelle riserve viene amministrata in forme specifiche da giudici tribali e la loro giurisdizione ha pesanti limitazioni per quanto riguarda il campo d’azione. In particolare perché, per moltissimi reati, possono esercitare l’azione penale solo sugli abitanti della riserva in cui esercitano: la violenza sessuale è tra questi. Ne consegue ovviamente che anche quando l’abuso viene denunciato, nell’86% dei casi i giudici tribali debbano riferire alla giustizia federale. Sempre i dati diffusi dal Dipartimento di Giustizia mettono in evidenza l’altissima percentuale di accuse non prese in carico dai procuratori federali e lasciate decadere: non sorprende che, in un regime di discrezionalità dell’azione penale, a rimetterci siano le soggettività più deboli. 

L’agghiacciante situazione qui descritta, che tende a essere fin troppo di frequente invisibilizzata, genera di fatto uno stallo che ha portato a un senso di rassegnazione diffuso da parte di associazioni ed enti che cercano da anni di occuparsi del fenomeno. Sono inquietanti alcuni colloqui riportati ad esempio da Charon Asetoyer, direttrice del Centro di Educazione alla salute delle donne native statunitensi, che più di una volta si è sentita domandare: «Cosa dirò a mia figlia quando verrà stuprata?». Una risposta messa in campo è stata la pubblicazione di un breviario dal titolo What To Do When You’re Raped: An ABC Handbook for Native Girls.

Spesso la questione è arrivata all’orecchio del Congresso degli Stati Uniti ma ancora poco o nulla è stato fatto, malgrado lo stesso Obama l’abbia definita «un’onta per la nostra coscienza nazionale». Che la questione qui sia razziale e sistemica dovrebbe essere evidente, ma per non limitarsi alla situazione statunitense, che potrebbe spingere a limitarne il contesto, basti riflettere su un altro allarme legato agli abusi sessuali delle donne native: il rapimento e il successivo assassinio di quelle stesse donne. Fenomeno, quest’ultimo, che oltre agli Stati Uniti riguarda anche quel grande faro di civiltà e giustizia sociale che si dice essere il Canada. Una commissione voluta dal primo ministro Justin Trudeau (sotto la spinta compatta di associazioni di persone native canadians), dopo due anni di lavoro ha rilasciato, nel 2019, un report su una serie di abusi sistematici subiti da donne native che dallo stupro arriva appunto fino alla sparizione e all’assassinio. Tra le migliaie di pagine prodotte dalla commissione è possibile leggere: «Le violenze su queste donne trovano ragione nella inazione dello Stato e nel colonialismo con le relative ideologie connesse, basate su una presunta superiorità»

Pubblicato sul numero 58 della Falla, ottobre 2020