Il mio personalissimo approccio a Tondelli è stato stravagante. Partivo da un’assoluta ignoranza di cui sono colpevoli le istituzioni educative che volutamente lo ignorano e lo escludono da un canone fin troppo datato, bigotto e cronologicamente ristretto. Di mezzo però, c’è stata una scintilla balenata nei miei occhi per caso, e solo qualche anno dopo tradotta in un’estemporanea ubriacatura spirituale.
Come nei migliori film di tradizione hollywoodiana, la mia pellicola letteraria è cominciata dalla fine o quasi. Dall’ultimo Tondelli, il più intimo, di Biglietti agli amici (1986) – come ho avuto già modo di scrivere in questa rubrica – per poi riavvolgersi sui suoi primi passi, dirompenti, rivoluzionari e sociali dei racconti di Altri libertini (1980). Certe volte durante la lettura (in questo caso criticamente preparata) mi son chiesta: come può il timido Pier Vittorio aver scandalizzato una nazione intera, esser finito a processo per un libro? La risposta in realtà la possedevo già e la pescavo un po’ dalle letture e ricerche che avevo fatto per la prima recensione e un po’ dal mio intimo. Era la domanda sbagliata, però. Quella giusta era il perché della perenne abitudine della gente, persino della più sensibile e perspicace, di costringere un’anima in un unico e castrante physique du rôle. Così si condanna spesso un* rivoluzionari* a essere capo banda o un* introvers* a voler subire passivamente il sistema.
E di questo, Tondelli, come milioni di altre persone salite alla ribalta improvvisamente, c’è anche morto. O meglio, è morto di AIDS, ma nei primi anni ’90 questa era ancora la peste dei froci e non c’era la libertà di viversi la malattia come si desiderava. Tondelli tornò nella tanto odiata provincia da cui aveva passato una vita a fuggire per affrontare la malattia nel silenzio e nella tranquillità di uno spazio intimo e familiare.
Evidenti le contraddizioni, solo apparenti (ripeto!), nel Tondelli uomo e nel Tondelli scrittore. Ragazzo acclamato a furor di popolo, portavoce mediatico per rappresentare le istanze del movimento di liberazione omosessuale italiano; di quel gruppo di giovani militanti che, sull’onda lunga del clima di rivendicazione del ’77, si erano dati le prime forme di organizzazione sistematica e avevano conquistato i primi spazi di visibilità.
Uno scrittore venticinquenne, le cui 10.000 copie del libro d’esordio (un caso letterario che era arrivato già alla terza edizione) erano state sottoposte a sequestro, a cos’altro poteva esser destinato se non ad aizzare la folla? Andò a processo con l’accusa di turpiloquio e oscenità per il linguaggio utilizzato nel libro e per le immagini evocate. Poco contava, allora, che nel 1981 fosse stato prosciolto con formula piena, e che poi lui stesso avrebbe epurato il libro dalle bestemmie e dalle scene più scabrose nell’edizione Bompiani. Pier Vittorio, infatti, impiegò tutto il resto della carriera letteraria a sfuggire dall’etichetta di provocatore che gli incombeva addosso, da questo vessillo che non gli interessava indossare e che su di lui si trasformava in fardello.
Queste contraddizioni sono state solo una spinta ulteriore ad approfondire, incuriosita, questo autore. Mi accostavo a quest’opera armata di un approccio alla lettura diverso, frutto di quell’età matura che dà ai libri quel sapore diverso di cui parla Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), scrivendo di come ogni rilettura abbia sempre un gusto nuovo.
Tondelli racconta di una gioventù e di una provincia consumate e deturpate, annoiate da una vita che solo la droga e il sesso rendono temporaneamente sopportabile. Di un viaggio, che è anche il viaggio di una crescita personale e sentimentale. Di un’iniziazione omosessuale. Dei diseredati che gravitano attorno al Postoristoro, dei busoni, delle puttane e dei terroni, «fetenti mafiosi». Di un’umanità squallida, dello squallido elevato a cifra stilistica. Giovani disillusi e disinteressati. Criticando una provincia che spesso non sapevano di criticare. È la gioventù degli anni ’80 ma potrebbe essere la nostra, afflitta dal vivere nella stessa provincia alienante e arretrata, ma a volte ancora luogo di rifugio temporaneo. Una provincia centro di molte narrazioni artistiche italiane, al tempo stesso gabbia e fucina, carnefice e musa. Una grande provincia Italia, che anche un po’ per questo rende Altri libertini un libro ancora abbastanza attuale, in cui ognun* di noi si riconosce almeno un po’.
I sei racconti di Altri libertini compongono uno schizzo della gioventù italiana sullo sfondo della realtà politica e del clima culturale di quegli anni (in particolar modo in Mimi e Istrioni, Viaggio e Autobahn). L’inizio degli anni ’80 è però anche il momento in cui si inizia a manifestare un allontanamento giovanile dalla politica, ad avvertire la mancanza di una generazione coesa, aggregata intorno a degli ideali. Manca il collante e mancano gli spazi della comunità, e così in un diffuso movimento centrifugo ci si disperde dentro ai meandri del proprio sé, esasperato e solitario, che finirà per ammalarsi di solitudine.
In sei episodi Tondelli racconta il passaggio da una generazione a un’altra, due modi di vivere la gioventù, quello che stava scomparendo e quello che stava arrivando, ancora intrecciati.
E se è tutto così familiare, al tempo stesso, proprio per questo motivo, qualcosa rimane inafferrabile. A te, che sei nata troppo tardi, quel linguaggio si liquefà davanti agli occhi: così esuberante e provocatorio (tanto da far sembrare quello di ora ancor più pudico), così ermetico e autoriferito da sembrare racchiuso in un sé inaccessibile. Come se ti mancasse la chiave per poter penetrare il nucleo della questione. Quella chiave è incastonata nei libri che hanno segnato una generazione, descrivendola e ridisegnandola. E Altri libertini ha fatto questo, scevro da ogni sentimentalismo.
Avevo provato la stessa sensazione leggendo On the road, di Jack Kerouac. Sono passati un po’ di anni da quella lettura e a quei tempi mi ero detta che forse ero ancora troppo piccola per comprendere davvero quel libro, che forse avrei dovuto rileggerlo passato qualche anno.
Forse dovrei fare lo stesso con Altri libertini, forse Calvino me lo consiglierebbe. Ma forse Pier Vittorio no. Lui quando lo ha fatto, a dieci anni di distanza, scrive di essersi sentito come uno che spiava squallidamente le proprie seghe giovanili.
Immagine in evidenza realizzata da thebookadvisor.it e immagine nel testo da Ren Cerantonio
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